Ritengo inutile e fuorviante celebrare la resistenza al nazi-fascismo facendo improvvisati parallelismi con la situazione ucraina. La storia non si ripete, almeno non riproponendo le stesse situazione e non potendo fornire quindi le medesime indicazioni. Bisogna sforzarsi di andare al nocciolo valoriale della resistenza italiana e da questa trarre qualche utile insegnamento per il presente.
L’antifascismo fu inizialmente una battaglia d’élite o quanto meno di pochi coraggiosi per poi diventare, strada facendo, un fatto di popolo, una vera e propria guerra di liberazione dalla guerra. Mi piace considerare la sostanza resistenziale quale riscossa democratica, costretta ad usare anche le armi, ma basata sul ritorno alla libertà e alla pace.
Come mi ha insegnato mio padre l’antifascismo è parte integrante e fondamentale della vita di una persona, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Su questo non si può discutere: quando mia madre timidamente osava affermare che però Mussolini aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare.
In secondo luogo resistenza (nel cuore e nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “ in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.
Sinceramente non so se si possa prefigurare un collegamento con la coraggiosa difesa messa in atto dagli ucraini contro l’invasore russo: non conosco i sentimenti di questo popolo, la sua sensibilità politica, i suoi valori di riferimento. Per fare una vera e propria resistenza non bastano le armi con le quali far valere il sacrosanto diritto a difendersi dall’invasore. Non so se la storia di questo popolo fornisca le armi politiche in aggiunta a quelle militari.
Invece di esercitarsi nella stucchevole, retorica e prematura celebrazione della resistenza ucraina, fornendo ad essa autentiche valanghe di armi, sarebbe molto più costruttivo aiutarla a maturare una convinzione democratica.
A volte sento teorizzare che la liberazione dal nazifascismo sia stato frutto dell’impegno bellico degli Usa, il resto sarebbe stato un mero contorno sociale. Non è vero. Rifiuto categoricamente questa versione minimalista. Così come rifiuto l’idea che solo la guerra possa far finire la guerra. La resistenza ebbe proprio la funzione di tradurre sul piano socio-politico la vertenza bellica, ponendola in una peraltro mai definitiva prospettiva democratica.
Temo che in Ucraina al di là della disperazione contingente (che dovrebbe scuoterci tutti) manchi questo pathos democratico da parte della gente e da parte di chi la dovrebbe rappresentare. Vediamo di esportare assieme alle armi un po’ di amore per la democrazia. Può sembrare un discorso provocatoriamente e paradossalmente omertoso. Se devo essere sincero fino in fondo, mi preoccupa molto il dopo-invasione. Non vorrei che gli ucraini passassero dalla padella bollente putiniana a quella a fuoco basso e lento dell’occidente. Sono consapevole di spararla grossa, ma Zelensky sarà in grado di guidare un processo di ricostruzione da tutti i punti di vista o si accontenterà di fare il foraggiato burattino nelle mani dei suoi alleati americani?
Se il buon giorno si vede dal mattino, non c’è da stare molto tranquilli. Sapranno gli Ucraini scrivere una Costituzione che valorizzi la loro resistenza e ponga le basi di uno Stato veramente democratico? Questa è l’incompiuta ma virtuosa storia italiana, che mi sento di celebrare con convinzione e commozione e semmai di proporre all’attenzione degli Ucraini.