Sono apparsi due articoli sul quotidiano “Avvenire” che hanno il pregio di sfrugugliare nell’animo non di chi parla di guerra, ma di chi la soffre in primissima persona.
Mio padre di fronte alla guerra teorizzava una sorta di diserzione di massa. Era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati. Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. E col richiamo a Mussolini squalificava prima del nascere ogni e qualsiasi intervento armato a prescindere dalla motivazione, sempre e comunque sbagliata.
Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai oggi) e di democrazia (col riferimento a tutti i regimi che iniziano e finiscono inevitabilmente in guerra). Su questo non si poteva discutere: quando mia madre timidamente osava affermare che però Mussolini aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare. E se mia madre insisteva sostenendo che l’errore del fascismo era stato quello di entrare in guerra, lui, scuotendo il capo, ribatteva che non poteva che finire così. Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?”.
Ebbene, ci sono uomini dell’Ucraina che disertano a priori per amore (è una cosa stupenda!!!). Ci sono i militari russi fatti prigionieri che disertano a posteriori coi loro rimorsi (è una cosa tragica!!!). Come detto faccio riferimento a due stupendi articoli di Avvenire.
Scrive Nello Scavo: “Dice un padre di famiglia ucraino: “Lo so che la nostra è legittima difesa, e che se anche dovessi uccidere il nemico per difendere la mia famiglia, mi verrà perdonato. Ma io non prenderò il fucile”. L’ostinata nonviolenza di Yuri, tra le rovine della cintura esterna di una Kiev a cui l’armata russa ha mostrato cosa sarebbe capace di fare se entrasse tra le vie acciottolate del centro storico, non ha niente a che vedere con il pacifismo a oltranza. “Non ho nulla contro i pacifisti”, dice mentre si prepara a un’altra notte nello scantinato che tutti chiamano bunker, più per tirare su il morale che per reale capacità di resistenza delle strutture portanti. “Solo che io non voglio sparare a nessuno, non voglio uccidere, ma non voglio neanche morire”, aggiunge. Potrebbe però arrivare un momento in cui dovrai scegliere, gli facciamo notare: o la tua vita o quella di chi ti sta di fronte. “Può darsi che gli tirerò un sasso, oppure avrò così tanta paura da restare paralizzato aspettando che mi ammazzi”, risponde. “Intanto – aggiunge – cerco di dare una mano ai ragazzi che vanno a lottare. Gli spiego che non sono obbligati a farlo, ma che se lo fanno devono farlo per amore della nostra libertà, non per odio”.
Ed ecco un altro stralcio di questo articolo di Avvenire. “A usare le categorie delle cronache di guerra, si direbbe che sono renitenti alla leva. Oppure disertori. “Io e Alessia non avevamo niente – racconta il ragazzo, sposo da tre settimane -. Ci siamo fidanzati e abbiamo trovato un lavoro, poi una casa e finalmente ci siamo sposati”. Hanno provato ad attraversare insieme la frontiera verso Chisinau, in Moldavia. Ma la poliziotta ucraina lo ha bloccato: “Devi combattere per la patria!”. Le lacrime di Alessia nessuno potrà mai descriverle. É rimasta anche lei, non ha voluto lasciarlo da solo. Lo implora di non unirsi alle milizie. “Allora combatteremo insieme”, gli dice quasi minacciandolo. Ma lui non si perdonerebbe di averla trascinata davanti al nemico. Si sente un vigliacco, un traditore di Kiev. Poi saluta con una di quelle frasi che starebbero bene nei libri: “Non andrò a combattere, devo proteggere lei. L’Ucraina è la mia terra, Alessia è la mia patria”. E di scrivere che è un disertore, proprio non riusciamo”.
Andiamo dall’altra parte della barricata in compagnia di Avvenire per la penna di Ferdinando Camon. “Questi soldati russi catturati in Ucraina non sappiamo se hanno sparato e ucciso, loro non lo dicono e se hanno sparato (e ucciso) non lo dicono neanche a sé stessi, cominciano a non dirlo adesso e andranno avanti per tutta la vita, non dire la verità è un modo per negarla e vivere fuori della realtà, e infine morire fuori della realtà, in un’altra realtà. È un modo, l’unico modo per accettarsi. Se torneranno a casa, è l’unico modo per essere accettati, come prima. Li guardo. Sono rapati, ma non a zero, dopo la rapatura i capelli sono un po’ cresciuti. Han teste squadrate, da statue futuriste. Non ci guardano in faccia, guardano in basso. Tutti. Si vergognano di qualcosa. Di essere stati catturati, un bravo soldato non si fa catturare. Di essere fotografati, e di sapere che la foto, prima o poi, va sotto gli occhi dei genitori. E della ragazza? Ma certo, anche della ragazza. La guerra, che doveva essere un’avventura, diventa una vergogna. Vorrei chinarmi fino a loro, per farmi sentire bene, e dirgli: è come ogni guerra, figli miei. Tornate a casa”.
Dio, che vede nei cuori e nelle coscienze, si commuoverà e ci aiuterà. Come ha opportunamente sostenuto il sacerdote ortodosso Giovanni Guaita, che insegna all’università di Mosca, dove risiede da una quindicina di anni, questa è la speranza forte che ci deve accompagnare e che vale molto più del sacrilego lancio delle bombe e dei pur necessari sforzi diplomatici per fermare le bombe.