La demagogia in concerto

Ricordo con commozione, nostalgia e imbarazzo l’inaugurazione della stagione lirica del teatro Regio in concomitanza con la contestazione studentesca: da una parte la ritualità operistica che mi coinvolgeva dal punto di vista culturale e dall’altra la protesta giovanile ed operaia che mi coinvolgeva da punto di vista politico. Trovai un compromesso andando in loggione e quindi evitando le uova marce che si accanivano contro la Parma-bene all’ingresso della platea e dei palchi, ma avevo una sorta di “magone” perché era molto difficile trovare un punto di contatto tra le sacrosante rivendicazioni studentesche e operaie e il sacrosanto diritto di entrare in teatro per godere dell’opera lirica.

Qualcuno si sforzava di teorizzare come l’opera lirica fosse sostanzialmente a favore dei poveri nei contenuti, ma strumentalizzata dai ricchi nella sua proposizione e fruizione teatrale. Tentativo maldestro di confondere arte e politica. Questa dicotomia rischia di ripresentarsi, riveduta e forzata, per l’inaugurazione dei teatri d’opera senza pubblico e soprattutto senza opere: in primis l’emblematica inaugurazione della stagione scaligera. Il teatro fine a se stesso, alla sua sopravvivenza economica ed agli interessi dei suoi protagonisti, il pubblico messo ai margini a “sgolosare” la passerella dei vip del palcoscenico. Il teatro è finzione, ma la finzione della finzione è forse troppo. È meglio tenere calato il sipario piuttosto che far finta di alzarlo. Probabilmente rischio di ricadere nella mia solita radicalità del tutto o niente.

Nel 1983 venne il terremoto ed il Regio subì danni tali da comprometterne l’agibilità. A livello della commissione teatrale l’assessore pose il problema se interrompere l’attività teatrale per almeno due anni o se pensare a qualche soluzione di ripiego: si trattava di utilizzare nel frattempo il teatro Ducale con tutti i suoi limiti strutturali e logistici. Si aprì ovviamente il dibattito. Pur comprendendo i rischi conseguenti ad una drastica interruzione, guidato dalla mia solita radicalità di proposta, mi schierai dalla parte dell’Assessore, a favore di una chiusura totale per lavori in corso. Il caro amico Gian Piero Rubiconi, autorevole componente della commissione teatrale, al contrario era convintamente per il ripiegamento sul teatro Ducale: valutava troppo importante garantire una continuità produttiva, probabilmente ricordava i gloriosi trascorsi di un teatrino che aveva ospitato in passato stagioni liriche vere e proprie, seppure in tono minore, forse addirittura gli tornava alla mente che il debutto assoluto sulle scene di Renata Tebaldi, sua illustre compaesana di adozione, era avvenuto con Bohème proprio al Ducale. Vinse Gian Piero con la sua saggezza e il suo attaccamento al teatro, tutti si fecero su le maniche e furono stagioni liriche molto interessanti quelle ospitate dal Ducale negli anni successivi. Basta scorrere gli annali degli spettacoli per accorgersene.

Il discorso però nel 2020 è assai diverso. C’è ben più di un terremoto, non esiste un teatro di riserva, non si possono trovare scappatoie se non quella della finzione concertistica, che non purifica l’aria teatrale dalle interferenze esibizionistiche del pubblico, ma la impoverisce e la mortifica.

Torno di nuovo all’indimenticabile Rubiconi, protagonista della storia del teatro Regio per diversi anni. Più volte abbiamo affrontato il discorso del rapporto tra politica e cultura. Non sopportava le intromissioni della ignoranza e della presunzione dei politici: furono proprio il motivo principale della sua prematura emarginazione teatrale. Senza avere intenti megalomani e spendaccioni, riteneva che la cultura, la musica in particolare, fosse una opportunità imprescindibile anche e soprattutto nei periodi di crisi. «Proprio quando l’economia va male è il momento di investire nella cultura, per fare argine alla crisi che trascina in basso i valori e per stimolare i consumi di prodotti che non si logorano nel tempo». Non era quindi un pauperista teatrale, ma nemmeno uno sprecone. Quante volte gli ho sentito dire: «Prendiamo questa iniziativa, è valida sul piano culturale e oltre tutto costa poco…». Ragionamenti saggi, troppo saggi per essere vincenti.

Il discorso però oggi è molto diverso. Certo, la cultura ci potrebbe e dovrebbe aiutare, ma viene bloccata nella sua spettacolarizzazione dalle inevitabili ristrettezze logistiche imposte dalla lotta al coronavirus. E allora? Bisogna far finta che? Non ne sono convinto e quindi ripiego, col mio perpetuo magone, su “il più bel tacer non fu mai cantato”.