Capitalismo (in)sopportabile

Quando leggo o ascolto qualche seria riflessione volta a mettere in discussione l’ideologia capitalista vengo catturato da una forte nostalgia valoriale, lontana da ogni e qualsiasi velleitarismo adolescenziale e pseudo-rivoluzionario, ma altrettanto lontana da ogni e qualsiasi rassegnazione di stampo liberista.

In questi giorni sono stato invitato a nozze dall’enciclica papale “Fratelli tutti”, che mi ha spinto a rivedere criticamente, alla luce del Vangelo e adottando la logica del buon samaritano, il mio stare nel sistema. Registro con interesse che il pensiero di papa Francesco irrita lorsignori, vale a dire i liberisti a tutto tondo, schiavi del capitalismo con i secoli contati. Benissimo! Allora vuol dire che ha toccato nel vivo della carne capitalistica e anche della mia carne.

Alcuni anni fa, nel periodo in cui ero impegnato a livello di volontariato in una cooperativa sociale, mi recavo spesso in banca per versare gli incassi del negozio gestito da un meraviglioso gruppo di persone fra le quali spiccavano alcuni soggetti svantaggiati avviati al lavoro. Manco a farlo apposta nei pressi dell’istituto di credito incontravo frequentemente un simpatico, schietto e colto amico col quale scambiavo qualche parola. Una mattina se ne uscì con questa provocatoria battuta: «Oh Mora, co’ sit dvintè un cäpitalistä?». Evidentemente era noto che non lo ero né in senso economico né in senso culturale. E non lo sono tuttora.

Ecco perché ho letto con un certo avido interesse di un libro-conversazione scritto da Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini contro il neoliberismo, il populismo, il post-ideologismo della destra ma anche della sinistra, il disincanto, i pigri luoghi comuni, la tecnocrazia senza politica, la dittatura del Pil. È un libro per un capitalismo democratico, la democrazia partecipata, lo sviluppo sostenibile, la riduzione delle diseguaglianze, l’interventismo statale e quello dei cittadini, il ricambio generazionale. È un manifesto per una nuova politica, un’agenda per il futuro, prossimo non remoto. Così lo presenta in modo molto invitante Roberto Mania sulle pagine culturali de La Repubblica.

Paolo Sylos Labini sosteneva che il capitalismo è capace di adattarsi ai conflitti e alle pressioni che si trova di fronte. Giorgio Ruffolo sosteneva che il capitalismo ha i secoli contati. E allora? Vuoi vedere che fare un po’ di anticapitalismo o almeno cercare un nuovo capitalismo equivale a pisciare contro vento? Enrico Giovannini sembra quasi tranquillizzarmi: «È il capitalismo malato nella versione neoliberista che va riequilibrato. Non li capitalismo in sé. Ma un modello rapace che ha invaso il mondo, ossessionato dalla ricerca della creazione di ricchezza a tutti i costi, dall’esaltazione del ruolo dei mercati, dalle privatizzazioni sempre e comunque, dalla critica all’intervento statale. Quell’economia guidata dai tecnici e dalle burocrazie tecnocratiche degli organismi internazionali (dal Fmi all’Ocse), con la politica che si è piegata, arrendendosi. Un capitalismo senza redini».

Fabrizio Barca spiega: «Il rapporto fra capitalismo e democrazia può squilibrarsi ed è esattamente quello che è successo: i meccanismi di riequilibrio che la democrazia ha esercitato e sta esercitando nei confronti del capitalismo sono deboli». Poi torna Giovannini a rincarare la dose: «Il covid 19 ha reso più evidenti i rischi che stiamo correndo rispetto al futuro se non affrontiamo seriamente il tema della sostenibilità, non solo ambientale, ma anche economica e sociale. Da questo punto di vista, credo – e non è solo una cieca speranza – che questa crisi ci lascerà un capitalismo più responsabile, più avverso al rischio, anche se ancora alla continua ricerca di occasioni di profittabilità».

Il discorso si fa inevitabilmente e giustamente politico: la distinzione fra destra e sinistra è tutt’altro che superata; occorre riscoprire “le papille morali” della politica, vale a dire autorità, lealtà sacralità. L’autorità si conquista e si fonda attraverso il confronto acceso, aperto, informato e ragionevole volto a ricercare una credibile nuova identità della sinistra; la lealtà significa rimanere fedeli all’impostazione democratica di fondo senza assimilazioni alla lettura neoliberale o autoritaria; la sacralità non vuol dire mercato e merito, ma interesse collettivo, impegno a garantire l’avventura di un mondo realmente sostenibile.

Leggerò questo libro per capire meglio, per approfondire il discorso e per verificarne la fattibilità a livello partitico. In conclusione infatti mi sento di esprimere due dubbi o meglio di porre due punti interrogativi. Siamo sicuri che la crisi pandemica ci orienterà verso una revisione profonda del sistema capitalistico oppure non ci farà sentire il richiamo della foresta spingendoci semplicemente a rifugiarci all’ombra delle piante secolari del capitalismo? Chi, come e quando sarà in grado di effettuare e guidare questa revisione così profonda, scomoda e impegnativa? Prometto agli autori del libro di leggerlo con molta attenzione, di proseguire la riflessione, ringraziandoli comunque di questa provocazione, che ringiovanisce il mio spirito politico e risveglia il mio annebbiato idealismo.