Un pretaccio in più da (rim)piangere

In una Chiesa ammalata di dogmatismo e clericalismo è difficile non essere borderline o, meglio, anticlericali. Ma tutto è relativo: anche nella comunità cristiana, così come ovunque, contano molto le persone. La struttura gerarchica lascia il tempo che trova, addirittura spesso indispone, indigna, allontana dal Vangelo. Mi aprono la mente ed il cuore, anche se non mi illudono più di tanto, le meravigliose e consolanti brecce aperte da Papa Francesco, purtroppo seguite da innovazioni istituzionali somministrate col bilancino, da concessioni (bontà loro…) tardive e cattedratiche alla logica evangelica. Esistono, grazie a Dio, le eccezioni tali da ripristinare la giusta regola. Ho conosciuto preti che di clericale non avevano niente. Chi li chiama pretacci, chi li chiama preti di strada. Io ho un debole per questi sacerdoti che seguono alla lettera il Vangelo e aiutano i poveracci di turno, acrobati senza rete, martiri della carità, testimoni dell’amore fraterno.

Tra questi colloco anche don Roberto Malgesini. Non lo conoscevo e quindi sono costretto a ricorrere per lui alle notizie di cronaca apparse su La Repubblica. 51 anni, “un vero prete di strada” come lo descrivono tanti, sempre schierato dalla parte degli ultimi: è stato accoltellato e ucciso a Como. L’aggressione è avvenuta sotto la casa dove abitava. Inutili i soccorsi: quando don Roberto è stato ritrovato, era disteso per terra con diverse ferite da arma da taglio e i sanitari ne hanno solo potuto constatare il decesso. Sul posto è arrivato anche il vescovo Oscar Cantoni ed è forte la commozione e il dolore tra chi lo conosceva. Il vescovo ha benedetto la salma di don Roberto prima che fosse portata via, e a pochi metri dalla chiesa di San Rocco si è formata una folla di fedeli, tra loro tanti migranti. Molti piangono e si abbracciano. “Dov’è il don? No, non può essere lui”, dice uno di loro ad alta voce. Ci sono stati anche dei momenti di tensione tra i parrocchiani e le persone assistite da don Roberto con accuse reciproche di averlo lasciato solo. Una donna italiana e un giovane africano sono anche venuti alle mani fino all’arrivo della polizia.

Il direttore della Caritas, don Roberto Bernasconi, racconta che era consapevole dei rischi che correva e usa anche parole dure per spiegare come si muoveva nel mondo don Roberto: “Era una persona mite, era cosciente dei rischi che correva. La città e il mondo non hanno capito la sua missione”. Paragona l’omicidio a un martirio: “Voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone. È una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno. Spero che questo suo martirio possa contribuire allo svelenamento della società”. E la Diocesi del sacerdote ricorda la bontà: “Era un pezzo di pane”. Il sindaco Mario Landriscina ha deciso di proclamare il lutto cittadino.

La mia vita cristiana è segnata da preti di questo tipo. Sono nato due mesi prima della morte di mio zio sacerdote. Di lui porto indegnamente il nome ed è il mio santo protettore. I report, che i responsabili della scuola di Teologia, frequentata a Roma da don Ennio, inviavano alla Curia Vescovile di Parma, contenevano, in mezzo ai giudizi sul profitto, una osservazione critica sulla sua condotta: era un po’ distratto. Ebbene, si dirà, può capitare a tutti di distrarsi durante le lezioni più impegnative e dure da digerire. Non si trattava di questo, don Ennio non si perdeva a guardare fuori della finestra. Era al contrario troppo attento, ma ai proble­mi dei ragazzi di borgata coi quali trascorreva parecchio tempo ed ai quali dedicava il cuore dopo aver rivolto la mente agli insegnamenti teorici. Criticandolo, in modo palesemente burocratico, gli facevano, a mio giu­dizio, il più bello degli elogi. Era portato ad interessarsi degli emargi­nati, soprattutto i bambini: era vicino agli ultimi in stile prettamente evangelico.

Tra questi preti  c’era senza dubbio don Sergio Sacchi, un sacerdote dotato di un sorriso accogliente verso tutti, disponibile a servizio degli ultimi, che non sapeva dire no a chi gli chiedeva aiuto, che cedeva il proprio letto a chi non aveva un rifugio per la notte, che offriva tutto quello di cui disponeva a chi non aveva da mangiare, che ascoltava chi aveva bisogno di sfogare i propri disagi e le proprie disgrazie, che riceveva rimproveri perché troppo fuori dagli schemi burocratici ed amministrativi, che era ritenuto un disordinato perché se ne fregava dei bilanci e delle loro perbenistiche quadrature, che veniva spostato da un incarico all’altro e da una parrocchia all’altra come se fosse un pacco postale, senza pretendere un “grazie” anzi sopportando critiche ed incomprensioni.

Manco a farlo apposta era amico di don Luciano Scaccaglia: di lui mi parlava quando io ancora non lo conoscevo e me ne tesseva gli elogi. Sarebbe troppo lungo e ripetitivo richiamare diffusamente la testimonianza di don Scaccaglia.  Alla sua vita e alla mia amicizia con lui ho dedicato ricordi e libri a cui rimando i lettori interessati ad approfondire il discorso.

Si tratta di sacerdoti che ti donano l’ossigeno, che ti riconciliano con la religione cattolica. Spesso penso ai palazzi vaticani dove si traffica, ci si compromette, si fa l’esatto contrario di quanto è scritto nel Vangelo. Mi dico: non tutto è così! C’era, novant’anni fa, anche don Ennio Bonati, c’erano, molto più avanti nel tempo, don Sergio Sacchi, c’era don Luciano Scaccaglia, c’era don Roberto Malgesini. L’elenco non è esaustivo ma emblematico.

Il sacrificio di don Malgesini mi ha commosso e turbato: di fronte a questi esempi devo ammettere di sentirmi un cristiano di merda. Quindi non ne faccio solo l’occasione per una polemica con la Chiesa più o meno ufficiale, con la società che sembra sapere solo odiare e discriminare, ma l’occasione per una profonda autocritica.

Chiudo ricordando un episodio più volte riportato nei miei scritti. Come dimenticare infatti ciò che raccontava, con rara e simpatica verve ironica, da don Andrea Gallo, il quale era stato chiamato a rapporto in Vaticano da un importante cardinale per discutere dei comportamenti pastorali border line del più pretaccio dei pretacci. Don Gallo scelse una linea difensiva semplice ed inattaccabile: «Io applico il Vangelo…». Momento di panico. Il cardinale ribatté laconicamente: «Beh, se la metti su questo piano!?». «E su quale piano la dovrei mettere…», chiese provocatoriamente don Gallo.