Il vaccino elettorale

Il vaccino contro il coronavirus potrebbe essere pronto entro tre o quattro settimane: lo ha detto il presidente americano Donald Trump in un town hall a Philadelphia. Nel caso, il vaccino arriverebbe prima delle elezioni Usa del 3 novembre.

Un vaccino è una preparazione artificiale costituita da agenti patogeni opportunamente trattati (e parti di essi) somministrata con lo scopo di fornire un’immunità acquisita. D’ora in poi occorrerà rivedere la definizione in “preparazione strumentale costituita da messaggi elettorali predisposti a tavolino divulgata mediaticamente al fine di orientare il voto dei cittadini”.

Ai lontani tempi della mia giovinezza a chi voleva sottovalutare le battaglie politiche giovanili di contestazione globale al sistema, bollandole come velleitarie e demagogiche, si rispondeva che “tutto al mondo è politica” e quindi tutto doveva essere rimesso in discussione. Al di là delle estremizzazioni sessantottine il discorso del “tutto è politica” non è sbagliato: ogni problema ha un suo risvolto a livello di scienza e tecnica, come teoria e prassi, avente ad oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica.

Anche il covid quindi è politica, ma non nel senso della smaccata e sporca strumentalizzazione trumpiana. A tutto c’è un limite. La risposta non si è fatta attendere: Donald Tump dovrebbe “lasciare quel dannato campo da golf” per “sedersi nello Studio Ovale” e mettersi al lavoro sul piano di aiuti per il coronavirus. Così lo sfidante democratico per la presidenza, Joe Biden, parlando con i cronisti in Florida dove è volato per fare campagna elettorale con gli ispanici in particolare nel mirino.

Non so quali siano gli umori statunitensi emergenti dalla campagna elettorale, penso non ci sia da stare allegri. Sono pessimista: gli americani, detta come va detta, di politica non capiscono un cazzo, quindi non mi stupirei se ripetessero l’errore di quattro anni fa. “Errare humanum est perseverare diabolicum”, generalmente ci si ferma lì, invece il detto latino ha una coda, vale a dire “fili mi erra sed culpam tuam semper declara”. Tradotto in italiano: “Sbagliare è umano, perseverare diabolico; figlio mio, sbaglia ma ammetti sempre la tua colpa”. Credo che gli americani non abbiano alcuna intenzione di ammettere la loro colpa, cioè di avere buttato il prete mondiale nella merda del populismo.

Per populismo si intende genericamente un atteggiamento ed una prassi politica che mira a rappresentare il popolo e le grandi masse esaltandone valori, desideri, frustrazioni e sentimenti collettivi o popolari. In questo momento storico la frustrazione popolare per eccellenza è costituita dalla paura del covid e quindi tutto torna alla perfezione. Donald Trump incarna la parte del perfetto populista per un popolo che gode nel farsi accarezzare la pancia.

Quando è scoppiata la pandemia, vedendo l’inettitudine del presidente americano nell’affrontare la conseguente emergenza e le contraddizioni clamorose in cui è caduto, mi sono detto: “Ci voleva il coronavirus per battere Trump!”. Mi sono sbagliato perché forse dovrò rettificare il tiro: “Ci voleva il coronavirus per salvare Trump!”. Evviva gli amici americani: ci hanno regalato tante cose buone in mezzo ai loro affaracci; da ultimo ci hanno regalato i loro affaracci senza cose buone.