La volpe e il coronavirus

«Stamani mentre mi stavo rinfilando questo bello scafandro ho pensato a quanti mesi abbiamo tirato nel cesso, ho pensato a tutti quegli imbecilli che continuano a dire: “Ma il virus è finito”. Non è finito un c….o! Voi andate al mare che io mi diverto a sudare dentro sto coso di plastica». È lo sfogo pieno di rabbia – poi cancellato da Facebook – di un’infermiera dell’ospedale San Luca di Lucca, dove in questi giorni si continua a lottare contro il coronavirus. L’infermiera se la prende con chi continua a sottovalutare il rischio di una ripresa dei contagi. «Avete fatto bene – prosegue amaramente ironica nel suo post – a riaprire le discoteche, era di primaria necessità. Fate bene ad andare in giro senza mascherina, fate proprio bene! Vi meritate l’estinzione. Mi raccomando ora ricominciate con quella buffonata degli eroi».

Sono perfettamente d’accordo con questa infermiera in prima linea, disgustata dalla irresponsabilità e stupidità di troppa gente. Perché “quanno ce vo, ce vo”: la considero infatti una schietta, liberatoria e ironica invettiva contro la sistemica stupidità che accompagna la (finta) battaglia contro il coronavirus.

D’altra parte, a pensarci bene, tutto si spiega con la scala di valori che ci siamo insensatamente costruiti e che ostinatamente rispettiamo. Da giovane studente, per sostenermi economicamente e forse per accarezzare un sogno didattico mai realizzato, davo qualche lezione a ragazzini in difficoltà di apprendimento a livello scolastico. Ricordo il caso di lezioni impartite in materia di storia: eravamo, se ben rammento, ancora all’uomo primitivo e ai suoi bisogni primari. Provai a interrogare quel simpatico ragazzino chiedendogli qual era, a suo giudizio, il bisogno essenziale a cui l’uomo delle caverne doveva rispondere. Silenzio assoluto! Allora provai a dare, come si suole dire, un aiutino con i gesti, cercando di rendere l’idea della necessità di sostenersi e di avere la forza di sopravvivere. Ad un certo punto, equivocando clamorosamente i miei suggerimenti gestuali, mi arrivò una risposta apparentemente strana: lo sport! Scoppiai a ridere, chiesi scusa al mio ingenuo interlocutore, recuperai il discorso e lo portai faticosamente a ragionare seriamente. Aveva sputato cos’era per lui la cosa fondamentale, che veniva prima di ogni altra necessità: lo sport appunto.

Probabilmente oggi mi sentirei rispondere: il ballo in discoteca. Effettivamente anche gli uomini primitivi forse ballavano intorno ai pentoloni in cui facevano bollire qualche animale o addirittura qualche loro simile. Anche per loro valeva il discorso della rimozione psicologica, del divertirsi per non pensare al peggio, dell’evadere dalla triste e condizionante realtà. L’importante è andare in discoteca, è partecipare alle movide, è bulleggiare a destra e manca: vale per i giovani, ma anche per i meno giovani per i quali l’imperativo categorico ed irrinunciabile sono le vacanze. Tutto il resto viene dopo ed in subordine. Tempo fa un carissimo amico in vista dell’apertura della stagione estiva, mi diceva: «Vedrai, fra poco comincerà la solita bagarre delle vacanze: si abbandonano e si accantonano i vecchi negli ospedali o negli ospizi, si lasciano i cani e i gatti lungo le strade, ci si libera di ogni e qualsiasi fardello umano e animale per andare in vacanza…».  Oggi ci si libera persino dalla paura del covid 19, ci si convince che “sia andato tutto bene”, attualizzando finalmente quanto diceva il noto e demenziale ritornello che ci ha accompagnato durante il lockdown.

La tentazione di rimuovere gli ostacoli è sempre forte, ma diventa paradossale quando c’è in ballo la stessa esistenza. Il negazionismo non è un vezzo culturale che ritorna ciclicamente di moda, ma è una costante della nostra mentalità bacata. Nella famosa favola, la volpe vuol far credere che sia inutile fare tanti sforzi per un grappolo d’uva acerba; l’unica che probabilmente è riuscita a ingannare è solo se stessa.  La morale del racconto è che non bisogna disprezzare ciò che non si può ottenere. Noi stiamo andando oltre e rimuoviamo culturalmente non solo ciò che non possiamo ottenere (ci riteniamo onnipotenti…), ma ciò che ci dà fastidio (ci riteniamo onniscienti…).  Poi, dopo avere folleggiato, siamo costretti a tornare alla realtà e ci sgraviamo la coscienza mettendo sugli altari coloro che, per necessità e/o virtù, hanno tenuto i piedi in terra: loro ci salvano e ci salveranno.

Sono due i ritornelli di accompagnamento alla stagione del coronavirus. Il primo l’ho già indirettamente citato: “andrà tutto bene!”. Il secondo, apparentemente più profondo e culturalmente più pretenzioso, è: “niente sarà più come prima”. Osservando amaramente la realtà si può concludere che tutto è andato e sta andando malissimo e, ancor peggio, che nulla sta cambiando. Siamo sempre noi con i nostri incalliti e gravissimi limiti e difetti a prova di coronavirus. Il presidente della Repubblica, da par suo, ha fornito la morale civica nel tentativo di parare il colpo dell’insensatezza in cui stiamo precipitando: «Libertà non vuol dire diritto a far ammalare gli altri». Il monito di Sergio Mattarella peraltro è arrivato proprio nella giusta occasione, vale a dire nel corso della cerimonia del Ventaglio per il tradizionale saluto, prima delle ferie estive, con i giornalisti accreditati.