Il dio della televisione

Non mi piace unirmi al coro celebrativo alla morte delle persone: il rischio di fare un manierato epitaffio è sempre dietro l’angolo della comoda e stucchevole memoria elogiativa. “Fäls cmé ‘na lapida” si dice in dialetto parmigiano. Mi sento però quasi in dovere di fare un’eccezione per Sergio Zavoli, tentando scrupolosamente di evitare il rischio.

I media, come al solito, sono saltati addosso all’evento (che non vuol dire seguirlo e farlo seguire): stanno involontariamente tradendo la sua preziosa eredità giornalistica e televisiva. Quanta nostalgia per Sergio Zavoli, il quale durante l’alluvione di Firenze aprì la finestra e fece vedere e sentire l’acqua dell’Arno che scorreva per le vie del centro: l’approccio disincantato ma rispettoso ai fatti per valutarne umanamente la portata.

Il mio indimenticabile insegnante di italiano lo definiva “il dio della televisione”: in effetti fu l’inventore del giornalismo televisivo, riuscendo a coniugare la proposizione dell’immagine con il diritto di cronaca, aggiungendo all’obiettività dell’immagine l’eco del resoconto giornalistico in un mix coinvolgente e stimolante.

Davanti al giornalismo televisivo, così sbracato e così vuoto, spesso mi chiedo: ma dov’è il cuore? E, senza cuore, pensiamo di essere liberi di pensare, giudicare, decidere. Riteniamo di essere intelligenti. Un tempo si diceva, dal punto di vista fisico, che il cuore era il padrone di casa. Oggi si preferisce affermarlo del cervello. Se pensiamo alla miglior vita materiale, è giusto. Ma se badiamo all’esistenza totale dobbiamo tornare al cuore, non al muscolo che sovrintende alla circolazione del sangue, ma alla sede della coscienza in cui siamo interpellati da Dio e dagli uomini. Non avevo mai pensato che si potesse vedere col cuore! Invece Zavoli era capace di vedere e raccontare col cuore buttandolo oltre l’ostacolo dell’obiettività e della razionalità.

I suoi colleghi di oggi, anziché tesserne gli elogi, sarebbe meglio che si facessero un bell’esame di coscienza, che ripassassero la lezione e imparassero finalmente che è inutile raccontare le immagini, ma bisogna andare oltre per esprimere il loro impatto e commentare il loro messaggio. In questo senso è molto più facile fare giornalismo sulla carta stampata o alla radio dove il protagonista è il cronista: in televisione protagonista è l’immagine e il cronista deve essere capace di lasciarla lavorare in pace e di coglierne l’effetto vitale, usandola come un grimaldello per sviscerare la realtà che vi sta dietro.

I giornalisti televisivi sono preoccupati di non essere spiazzati dall’immagine e allora tendono a metterla in secondo piano rispetto al loro logorroico commento: no, non ci siamo e Sergio Zavoli lo ha dimostrato sul campo. Penso di fare cosa a lui gradita ricordandolo come giornalista più che come dirigente Rai e come politico. Era capace di aprire la finestra sui fatti per coglierne l’essenza, come fece appunto in occasione dell’alluvione di Firenze. E Dio sa quante alluvioni ci siano e quante finestre si dovrebbero aprire. E lui infatti era il dio della televisione.