Il Padreterno non governa il Veneto

Mio padre credeva così fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle che ingenuamente si illudeva di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello: “chi scappa sarà ucciso”. Non aveva una mentalità autoritaria, ancor meno violenta, ma aveva uno spiccato senso del dovere, innanzitutto per se stesso e poi lo pretendeva anche dagli altri. Atteggiamento per un verso virtuoso e ammirevole, pericoloso se portato all’eccesso.

Durante i primi giorni della lotta al coronavirus, con la zona di Codogno isolata e messa in quarantena, provvedimento che poi purtroppo dovette essere allargato all’intero territorio nazionale, un cittadino fece un’uscita clamorosamente trasgressiva, andò a sciare e si procurò una frattura che venne regolarmente curata in ospedale.  A Marcello Lippi, allenatore di calcio, impegnato per alcuni anni come commissario tecnico della nazionale cinese, è stato chiesto cosa pensasse della Cina e del coronavirus. Azzardò una similitudine paradossale, ma non più di tanto: al cittadino italiano in fuga dal lock down è stata sistemata la frattura alla gamba, in Cina lo avrebbero messo al muro.

Il governatore del Veneto, che amo definire come “il decisionista che più decisionista non si può”, di fronte ai comportamenti border line dei suoi corregionali tende alla loro criminalizzazione e promette fuoco e fiamme arrivando a ipotizzare trattamenti sanitari obbligatori, tende a fare denunce penali vere e proprie come nel caso dell’imprenditore rientrato dalla Serbia, che ha rifiutato il ricovero ospedaliero dopo essere stato rilevato come positivo al covid 19, tende a scaricare sul governo la colpa della risalita dei contagiati per non avere disposto norme severe (la galera?!) contro gli irresponsabili.

Mettiamoci d’accordo: so per certo di malati di coronavirus con tanto di febbre alle stelle, lasciati a casa senza nemmeno procedere al loro “tamponamento”, curati per telefono. Adesso, dal momento che la struttura ospedaliera non è più in tilt, si arriva a pensare al tso (come per i matti furiosi). I governatori regionali, durante la prima fase della pandemia spingevano sul governo affinché dichiarasse lo stato di emergenza nazionale e dipingesse di rosso tutta l’Italia, forse per evitare il rossore di vergogna di qualcuno in particolare. Quando si accorsero che l’economia rischiava di “andare a puttane”, cominciarono a fare i primi della classe e a chiedere la riapertura differenziata per i loro territori (naturalmente i più virtuosi). Adesso ricominciamo daccapo? Un po’ di coerenza e di equilibrio non guasterebbe.

Un conto è la severità verso i cittadini che assumono atteggiamenti e tengono comportamenti pressapochisti e irresponsabili; un conto è subissarli di adempimenti formalmente assurdi come le autodichiarazioni per giustificare le uscite da casa, con moduli che cambiavano ad ogni piè sospinto (ho esaurito le cartucce della stampante a forza di stamparne: a quel punto non sapevo più come fare per esibire l’autodichiarazione valida nel tragitto da casa mia al negozio di informatica, aperto in deroga); un conto è criminalizzarli e metterli alla gogna.

A proposito di criminalizzazione, mio padre del fascismo (la lingua batte dove il dente leghista duole) mi forniva una lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente, mi diceva, trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare  la propria estraneità al fatto , la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io. Non voglio esagerare, ma, se per combattere il coronavirus dovessimo instaurare un autoritario e poliziesco clima di caccia alle streghe, preferirei correre il rischio di ammalarmi: non vorrei essere equivocato, ma, per tornare alla similitudine di Marcello Lippi, al muro non ci metterei nessuno, né in senso proprio né in senso figurato.

Luca Zaia è stato dichiarato “santo subito” per i risultati positivi ottenuti nella sua regione nell’ambito della lotta al coronavirus. Chi lo vedrebbe leader della Lega (al posto di Salvini), chi lo vorrebbe capo del governo (in una compagine di centro-destra vincitrice delle prossime elezioni), chi lo giudica come l’uomo della provvidenza autonomistica contro la maledizione centralista. Adagio nelle curve! Chi vivrà vedrà. Mi sembra che sia molto capace di accreditarsi i meriti e di scaricare le colpe. Tutto quel che è bene è merito della regione Veneto, tutto quel che è male è colpa del governo Conte. Verso l’attuale governo ed il suo capo sono piuttosto critico, ma di fronte alla insopportabile prosopopea zaiana (e non solo), finisce, come scriveva il Giusti nella sua poesia S. Ambrogio, che abbraccio Conte, duro e piantato lì come un piolo.