Paradisi fiscali e finanziamenti infernali

Fiat Chrysler Automobile N.V. (FCA), azienda italo-statunitense di diritto olandese, è un produttore multinazionale di autoveicoli, ottavo gruppo automobilistico al mondo per numero di veicoli prodotti. Nata nel 2014 dalla fusione tra l’italiana Fiat S.P.A. e lo statunitense Chrysler Group, fanno parte di FCA parecchi e importanti marchi. La società è quotata sia alla borsa di New York che a quella di Milano.

Prendo la notizia pari-pari dall’Agenzia “QuiFinanza”. Ebbene c’è anche FCA Italy tra le aziende che potrebbero godere della garanzia statale sui prestiti bancari (tramite SACE) per far fronte alla crisi economica scaturita dall’emergenza sanitaria. La notizia è stata anticipata da Milano Finanza e poi ripresa dalle principali agenzie di stampa nazionali e internazionali. E, anche se non ci sono conferme dirette da parte di SACE o della stessa FCA, pare che la pratica sia in una fase avanzata di valutazione.

E, viste le cifre che girano attorno a questa presunta richiesta, la notizia ha destato parecchio scalpore. Secondo le anticipazioni fornite dal quotidiano economico milanese, FCA Italy avrebbe chiesto il massimo consentito dal Dl Liquidità: il 25% del fatturato fatto registrare dalla società lo scorso anno. Tradotto in soldoni, 6.3 miliardi di euro di finanziamenti concessi da Intesa Sanpaolo e un pool di altre banche con lo Stato (attraverso il “braccio operativo” di SACE) che farebbe da garante per l’80% dell’ammontare. Ossia, nel caso in cui FCA Italy non fosse in grado di ripagare il debito, le casse dell’erario potrebbero essere costrette a restituire 5 miliardi di euro alle banche creditrici.

Come detto, sulla faccenda vige il più assoluto riserbo dalle parti in causa (ossia, FCA Italy, Intesa Sanpaolo e SACE), ma, stando alle fonti di Milano Finanza, la richiesta di prestito dalla società del gruppo Exor sarebbe stata avanzata già alcune settimane fa e tutto farebbe supporre che potrebbe ricevere il nulla osta di SACE e del governo. Inoltre, FCA otterrebbe anche una garanzia sull’80% del capitale richiesto anziché sul 70% in considerazione del suo carattere di interesse nazionale.

Nel caso il prestito venisse garantito, però, FCA Italy dovrebbe sottostare ad alcune condizioni imposte dall’Esecutivo. Prima di tutto, non dovrebbe erogare dividendi agli azionisti né per il prossimo anno (previsto da 1,1 miliardi) né per i prossimi anni. Inoltre, non potrebbe effettuare riacquisto di azioni proprie in un momento di andamento ribassista del mercato.

Secondo alcuni analisti, poi, la concessione del prestito con garanzia statale potrebbe avere ricadute anche sul progetto di fusione con i francesi di PSA, la cui definizione dovrebbe arrivare tra circa 12 mesi. Dagli accordi pre-pandemia, agli azionisti FCA sarebbe toccato un maxi-dividendo da 5,5 miliardi straordinario. Che, probabilmente, non potrebbe essere più erogato in caso di accesso al prestito da 6,3 miliardi. La richiesta della branca italiana di Fiat Chrysler Automobiles ha immediatamente provocato una ridda di reazioni non esattamente positive, a livello politico ed economico.

Ho volutamente abbondato nel riferimento testuale alle notizie sull’argomento per capire meglio e per meglio esprimere un mio personale giudizio, provando a non scadere nel moralismo e nel pauperismo. La crisi economica indotta dalla pandemia tocca in modo sensibile il mercato automobilistico e quindi non stupisce più di tanto che una grande azienda protagonista di questo mercato possa soffrire di grosse difficoltà. Per dirla con una battuta velenosa, col coronavirus anche i ricchi piangono. Bisogna poi considerare gli enormi effetti economici e sociali, a livello di indotto e di occupazione, che ha la crisi di un simile colosso, il quale evidentemente sta evidenziando di avere i piedi finanziari d’argilla, anche se la situazione è talmente straordinaria da prescindere da ogni e qualsiasi valutazione sulla sua robusta costituzione, che evidentemente però non è a prova di bomba-coronavirus.

La prima spontanea riflessione è di carattere etico: se nel periodo di vacche grasse uno scappa di casa per andare alla ricerca di migliori condizioni fiscali (per pagare meno tasse, insomma), se recita cioè la parte del “figlio speculatore” (il contrario del figliol prodigo), non è credibile, quando arrivano le vacche magre, e ritorna alla magione per chiedere aiuto, oltre tutto alla sua famiglia d’origine in grosse difficoltà con i restanti figli. Non si può approdare ai cosiddetti paradisi fiscali (l’Olanda nel caso specifico) per poi tornare nel purgatorio nei momenti in cui c’è il rischio di sprofondare nell’inferno. Il discorso dei paradisi fiscali andrebbe una buona volta eliminato a livello Ue, armonizzando seriamente i sistemi tributari nazionali, ma è clamorosamente evidente come vi sia chi salta da una nazione all’altra a seconda delle convenienze del momento: non è giusto e non è accettabile.

La seconda riflessione è di carattere finanziario e riguarda la destinazione degli utili della Fca: si parla di distribuzione di rilevanti dividendi ai soci pur finalizzati ad una certa strategia aziendale. Ebbene, in questo momento mi pare che dovrebbe essere doveroso rivedere questi discorsi: il governo italiano, a cui si chiede di prestare garanzie consistenti e rischiose, ha tutti i motivi per chiedere prioritariamente un impegno a livello di autofinanziamento. Per le società cooperative, dal momento che godono di trattamenti fiscali e finanziari agevolati da parte dello Stato, vige il pesante divieto della distribuzione degli utili ai soci, imponendo l’accantonamento a fondo riserva indivisibile. La Fca non è una cooperativa, ma ha goduto e gode di favori pubblici e se li deve meritare: i soci facciano la loro parte, rinuncino ai dividendi e poi semmai si potrà parlare di prestiti garantiti dallo Stato.

La terza riflessione è di ordine macroeconomico: attenzione a non sopravvalutare il ruolo della grande impresa nello sviluppo socio-economico del nostro sistema, a non appiattirsi sugli interessi confindustriali, a non correre dietro ai poteri forti che vogliono ritrovare forza a spese del governo. Il boom nel secondo dopoguerra, sui cui allori stiamo ancora cullandoci, non lo hanno fatto le grandi imprese, ma lo ha determinato la miriade di piccole imprese, quel tessuto che oggi è messo sempre più a rischio. Nel commercio vige il regime imposto dalla grande distribuzione; nell’artigianato sembra non esserci più spazio per la cultura dei prodotti e servizi tipici; nell’agricoltura dettano le condizioni i mercati dominati dalla grande industria e dalla grande distribuzione; nei consumi vige la più totale delle irrazionalità.

Riaffacciandomi nelle strade, nelle piazze e nei negozi, mi sono accorto di quanta buona volontà, di quanto gusto, di quanto stile, di quanta serietà rimanga nell’operosità di tanta gente appartenete al tessuto connettivo della nostra società. Gli aiuti pubblici devono privilegiare questi canali virtuosi. Sì, piccolo è bello! Grande è molto spesso fuorviante.