Il pallone medicinale

Parecchi giorni fa, il ministro della Salute, Roberto Speranza, intervistato a Radio Capital ha detto che la ripartenza del calcio «non è una delle priorità del Paese. Ci sono 400 morti al giorno». «Lo dico con il massimo rispetto – ha spiegato – e da grande appassionato di calcio però viene prima la vita delle persone. Le priorità del Paese oggi sono altre. Lavoreremo perché a un certo punto si possa riprendere la vita normale ma la priorità in questo momento deve essere ancora salvare la vita delle persone». Sottoscrivo a due mani, anche se, politicamente parlando, non ho particolari simpatie per l’attuale ministro.

La palla medica è uno strumento per sviluppare abilità, bruciare calorie e rinforzare i muscoli. Si può ottenere forza, tonicità e un maggior benessere, ma occorre apprendere le tecniche di esecuzione corrette per evitare infortuni. Includere alcuni degli esercizi con la palla medica nell’allenamento, può aiutare a variare l’attività fisica e a raggiungere facilmente il risultato desiderato. La palla medica è simile a al pallone da basket, ma esistono anche modelli di diversa grandezza e molto più pesanti. Si può sollevare, far oscillare, lanciare e afferrare, e per questo è utilissima per realizzare svariati esercizi. Se non erro questo strumento veniva e viene utilizzato anche nella preparazione atletica del calcio, così come mi sembra di aver visto che i calciatori si allenano a giocare con una palla di piccole dimensioni in quanto, paradossalmente, dove ci sta il meno ci sta anche il più.

In questo periodo il pallone potrebbe diventare medicinale per la gente, svolgere cioè una benefica azione psicologica, sollevare il morale, dando un incoraggiamento per il ritorno alla cosiddetta normalità. Il calcio ha sempre funzionato come distrazione rispetto ai problemi seri e, per questo motivo, mio padre pur seguendo il fenomeno con passione, era attentissimo a contenerne l’invasione. Il concetto, che aveva del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura domenicale calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

Avrebbe pertanto applaudito convintamente al ministro Speranza e avrebbe liquidato in poche sferzanti battute tutto il cancan che si sta facendo per ripescare il campionato di calcio dal limbo in cui è finito assieme a tutta la società. Resta però il discorso psicologico di cui sopra. Un mio carissimo zio sosteneva che la vita fosse fatta soprattutto di soddisfazioni: alludeva non a risultati economici, ma a elementi di umana gratificazione. Se riprendessero le competizioni calcistiche non avremmo grandi soddisfazioni, ma almeno ci potremmo illudere di essere in convalescenza, vale a dire di cominciare a fare qualche passettino avanti verso una pur lontana guarigione. In fin dei conti tutto può servire: an gh’è gram cavagn, ch’an vena bòn ‘na volta a ‘l an. Il tanto bistrattato e “baracconato” calcio, dopo essere stato strumento di alienazione di massa, potrebbe diventare un veicolo benefico di fiducioso incoraggiamento per le persone stressate. Purché il tutto non avvenga con insopportabili privilegi sanitari, con l’unico scopo di salvare il carrozzone su cui molti viaggiano scriteriatamente e con eccezioni che non confermino ma mettano in discussione le regole.