In questi giorni si parla tanto di normalizzazione, di ritorno alla normalità: il discorso è a mezza strada fra illusione ed equivoco. Stiamo infatti negando a noi stessi che, se per normalizzazione intendiamo il ritorno alla vita di prima, possiamo abbandonare questo desiderio anormale: la nostra vita sta cambiando e cambierà, che lo vogliamo oppure no. Saremo tutti più poveri di beni e di certezze, saremo tutti più insicuri e precari: andiamo verso una sorta di precariato di massa.
Per restare in ambito nazionale, nonostante le draconiane misure di salvaguardia adottate, tutti i giorni si ammalano migliaia di persone delle quali centinaia muoiono. Le attività economiche, pur dando per acquisiti gli aiuti promessi, ballano sull’orlo del baratro. L’assetto sociale, nonostante le più buone intenzioni di utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, è sconvolto: non si sa se e come riapriranno le scuole, se e come si produrrà cultura, se e come ci si potrà riunire per discutere, se e come potremo lavorare e impiegare il tempo libero.
Blaterare di normalizzazione rischia di essere un espediente di evasione dalla realtà: le fasi pensate dai governanti assomigliano a quelle lunari. Stiamo aspettando che riaprano le attività economiche e non ci rendiamo conto che molte di esse non potranno riaprire perché mancherà il mercato, l’eventuale offerta di beni e servizi non troverà più la domanda, l’offerta di lavoro a sua volta non troverà la domanda a livello di imprese e di entità pubbliche e private. Non penso di essere catastrofico, ma la vedo molto brutta e, se devo essere sincero, mi paiono patetiche le prospettive di un mondo “mascherato” in una sorta di carnevale globale e perpetuo.
E allora? Che fare in una vita in cui i rapporti umani saranno ridotti all’osso? Forse vivremo in un contrappasso dantesco in cui saremo costretti a stare in isolamento dopo la sbornia della futilità relazionale allargata. Vivremo di poche e indispensabili cose dopo lo sperpero perpetrato dei beni terreni. Pensiamoci un attimo: l’obbligo di non uscire di casa ha contribuito a risolvere i problemi del traffico e dell’inquinamento, lo stress del sentirsi prigionieri in casa ha sostituito quello delle code autostradali, la mancanza di evasione turistica pasquale ci ha sollecitato il desiderio di vivere il senso autentico dei misteri pasquali, la difficoltà a riempire il tempo improvvisamente svuotato delle nostre abitudini ci ha imposto di fare qualcosa di insolito e diverso, riscoprendo magari la bellezza di scelte culturali abbandonate da tempo.
Qualcuno dirà che sono alla poetica rivalutazione dell’anormalità per fuggire all’impossibile normalità. Può essere, ma se non ci sforziamo di trovare a livello privato una possibile, nuova e diversa normalità di mentalità e di vita, non possiamo pretendere che ci caschi addosso dall’alto un impossibile, vecchio e strambo stile di vita in cui aggirarsi come automi blindati. È inutile pensare che un vaccino possa cambiare o, meglio, rimettere indietro il mondo. Siamo tutti ridotti a Diogene con la lanterna in mano alla ricerca del come vivere, visto che siamo improvvisamente e inopinatamente tornati ad essere uomini.
Ecco perché mi sento invaso da una profonda tristezza. In un’omelia pasquale ho ascoltato una riflessione particolare sui discepoli di Emmaus e la profonda tristezza di cui erano rimasti vittime: la tristezza assecondata porta al disastro dal punto di vista umano e al peccato sul piano religioso. Il peccato è infatti la reazione illusoria alla tristezza, dopo di che la tristezza diventa ancora più grande e va avanti una perversa spirale negativa.
Mi sono chiesto: forse sto assecondando la tristezza e il pessimismo? Non lo so, fatto sta che anche gli affetti più profondi non riescono a scuotermi. La fede nel Risorto, pur scaldandomi il cuore, non toglie le difficoltà: non è e non può essere questo infatti l’eclatante miracolo della Risurrezione. Mi rifugio nella scrittura, che riesce a distogliermi almeno parzialmente dallo scoraggiamento e che mi consente di sfogare positivamente (?) la troppa sensibilità che mi ritrovo (croce e delizia della mia complessa personalità).
Sento che la trepidazione è grande e il cuore si fa pesante, come sostiene una carissima amica: la parola giusta non è tristezza, ma trepidazione! C’è da soffrire e da sperare che questo periodo ci rafforzi nel coraggio, nella sapienza e nel cuore: la sofferenza – la mia vita lo insegna – serve a questo. E la mia sofferenza è niente a confronto degli amici morti in solitudine o a cui sono stati strappati i propri cari in modo drammatico (il solo pensarci mi angoscia).
Il bravo e compianto Mike Bongiorno nelle sue trasmissioni televisive aveva adottato un simpatico, anche se molto superficiale, incipit: allegria! Come cambia il mondo…io mi presento con “tristezza e angoscia!”. Spero abbia ragione l’amica di cui sopra a parlare di trepidazione: sì, molto meglio. A volte una parola può salvare la vita…