L’ottimismo della irresponsabilità

Continua minacciosamente la litania delle cifre del coronavirus, che ci viene giornalmente propinata. Delle macabre quotazioni quella che maggiormente mi angoscia riguarda il numero dei decessi. I morti continuano, si sono attestati intorno ai 500 giornalieri: basterebbe questo dato per calmare i bollenti spiriti dei normalizzatori.

Gli esperti dicono che le persone che muoiono di coronavirus in media si sono ammalate nei quattordici giorni precedenti e quindi le morti attuali risalirebbero alla malattia contratta in pieno regime di lock down. Ragion per cui le restrizioni sembrano funzionare molto relativamente: per errori nell’individuazione delle cause del contagio o per insufficienza delle misure di isolamento sociale adottate o per scarsa osservanza delle regole da parte dei cittadini. Probabilmente saranno tutte concause di un risultato piuttosto deludente nella lotta al coronavirus.

Stiamo vivendo in un autentico bagno di sangue a livello sanitario, a cui molto probabilmente se ne aggiungerà un secondo a livello sociale: fallimenti, disoccupazione, miseria. L’ottimismo non è il mio forte per cui non pretendo che tutti piangano disperatamente assieme a me. Ma faccio fatica ad accettare chi spinge sull’acceleratore per entrare nella cosiddetta fase due, quella della ripresa dei rapporti socio-economici. Ci rendiamo conto delle difficoltà, ma soprattutto dei rischi che comporterà. Non si può parlare di convivenza con una malattia che tuttora fa 500 vittime al giorno. Siamo ancora in piena prima fase, non raccontiamoci balle. La speranza non deve morire, ma non ci deve far morire.

È pur vero che oltre le malattie fisiche e personali esistono quelle sociali: non mi pare che la strada giusta per prevenire le seconde sia quella di sottovalutare le prime. C’è ancora troppa incertezza sui dati epidemiologici, c’è ancora troppa confusione negli esperti, c’è ancora troppa debolezza e divisione nei pubblici amministratori, c’è ancora troppa velleità nelle forze economiche, c’è ancora troppo corporativismo nelle forze sociali, c’è ancora troppa irresponsabilità nella gente più propensa a rimuovere dalla mente la gravità della situazione piuttosto che affrontarla con realismo e serietà.

Non vedo all’orizzonte un progetto credibile e fattibile che ci possa aiutare ad uscire dal tunnel: siamo lontani dall’uscita dall’emergenza, ci siamo ancora dentro fino al collo. I politici smaniano per ridare fiato alla società e magari anche al loro elettorato: una di queste mattine papa Francesco ha pregato espressamente affinché i politici sappiano guardare al bene comune e non al bene del partito. Discorso trito e ritrito, che tuttavia non è assolutamente superato. Basti vedere i contrasti suscitati nel fissare la data delle prossime elezioni regionali: il solo parlarne mi mette la pelle d’oca. Possibile, in un momento simile, preoccuparsi delle elezioni? Ma fatemi il piacere…

È inutile continuare a parlare di normalità, stiamo vivendo nella più totale delle anormalità. Smettiamola di illudere la gente, diciamo poche e precise cose, parliamo chiaro, prepariamoci al meglio, ma affrontiamo con la dovuta attenzione e concretezza il peggio in cui siamo ancora invischiati. Antonio Gramsci parlava del pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà per spiegare come al riscatto dell’uomo in una civiltà nemica dell’uomo stesso possa provvedere solo la forza di volontà, al di là dell’analisi fattuale che invece ci condannerebbe al pessimismo e alla rassegnazione. Voglio credergli ed applicare il suo profondo ragionamento al riscatto dell’uomo dal coronavirus. Mi sembra però che anziché sull’ottimismo della volontà si stia puntando su quello della irresponsabilità.