Cavalieri solitari di Gran Croce

Chiese aperte a Pasqua. È la proposta del leader della Lega Matteo Salvini: “Non vedo l’ora che la scienza e anche il buon Dio, perché la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore Immacolato di Maria. Sostengo le richieste di coloro che chiedono, in maniera ordinata, composta e sanitariamente sicura, di farli entrare in chiesa. Far assistere per Pasqua, anche in tre, quattro o in cinque, alla messa di Pasqua. Si può andare dal tabaccaio perché senza sigarette non si sta, per molti è fondamentale anche la cura dell’anima oltre alla cura del corpo. Spero che si trovi il modo di avvicinare chi ci crede. C’è un appello mandato ai vescovi di poter permettere a chi crede, rispettando le distanze, con mascherine e guanti e in numero limitato, di entrare nelle chiese come si entra in numero litato nei supermercati. La Santa Pasqua, la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, per milioni di italiani può essere un momento di speranza da vivere”. Fin qui Matteo Salvini, che non perde occasione per attaccarsi furbescamente agli umori della gente: questa volta dal di fuori della Chiesa, cioè dal pulpito politico lancia una provocazione alla Chiesa stessa, con ragionamenti di mero buon senso in una materia dove il buon senso non basta, anzi rischia di farci deviare.

Il 16 marzo scorso Enzo Bianchi, dal di dentro della Chiesa e da un pulpito molto più credibile e sincero, lanciava anche lui la sua provocazione: “Un cristiano avrebbe obiezioni da fare di fronte ai vari atteggiamenti che si manifestano in questa emergenza, soprattutto riguardo alla liturgia eucaristica, che deve sempre essere azione di tutta la comunità, senza surrogati che smentiscono la realtà umana del corpo di Cristo che è la comunità e la realtà sacramentale del corpo di Cristo nel pane e nel vino. È vero che si può pregare in casa, nel segreto — come chiede anche Gesù —, ma senza eucaristia domenicale per i cristiani non è possibile vivere”. Immaginiamoci se questo discorso non dovrebbe valere per la Pasqua.

Innanzitutto chiediamoci: il coronavirus ha risvegliato il senso religioso e comunitario della gente o è soltanto una epidermica sensazione di vuoto, la domenica delle Palme senza ulivo benedetto come succede per il Natale senza neve? A mio modesto avviso l’angosciante problema umano e religioso non è tanto l’impossibilità di partecipare fisicamente alle celebrazioni pasquali, ma essere costretti a vivere e morire senza poter esprimere l’amore, confinato nel nostro intimo e che grida per uscire e che chiede aiuto per farsi ed avere spazio. La vera tragedia della situazione che stiamo vivendo consiste nel soffrire, nel morire e nel veder morire in disperante solitudine: questa è la demoniaca sfida del virus, che ci costringe e ci condanna ad un capovolgimento del comandamento della carità.

A questo non posso rassegnarmi, in questo sta la paradossale contraddizione della sofferenza, che porta sempre alla solitudine, ma non totale. Gesù sulla croce si sente solo e abbandonato, ma c’è sua madre Maria, sua zia Maria di Cleofa, c’è la Maddalena che lo ama svisceratamente, c’è il discepolo amato, c’è la sua umana famiglia da cui Lui fa scaturire la Chiesa. Anche allora vi era il divieto di avvicinare i condannati a morte, di toccare i cadaveri, in un mix umano-etico-religioso di regole per evitare un diverso, ma ben più paradossale, contagio.

Il mistero della sofferenza, che rimane tale, è stato comunque squarciato dalla lancia, che ha trafitto il costato di Gesù fino a fargli versare anche l’ultima goccia di sangue che gli rimaneva: Gesù ha sofferto tutta l’umana sofferenza e se ne è caricato per darle un senso redentivo e prospettico con la Risurrezione. Era solo nell’orto degli ulivi, ma arriva un angelo a sostenerlo; era solo lungo il percorso che porta al Calvario, ma c’erano le donne che piangevano, la Veronica che gli asciugava il volto, il Cireneo che lo aiutava a portare la croce; era solo inchiodato al legno, ma oltre alle presenze amiche c’era persino un ladrone che solidarizzava con lui. Forse che il coronavirus sta esagerando, facendoci vivere la più atroce delle sofferenze? La solitudine assoluta? Non è un caso se tendiamo a santificare e/o “angelizzare” gli operatori sanitari: sono le uniche presenze o parvenze di una carità di fatto nella desolazione dell’isolamento.

Torno a Enzo Bianchi, il quale pone interrogativi pertinenti, ma senza evidente risposta: “Chi si ammala e va verso la morte ha bisogno dei sacramenti, della consolazione cristiana, di vivere la speranza della resurrezione con i fratelli e le sorelle, senza sentirsi abbandonato. Se la Chiesa non sa essere presente alla nascita e alla morte delle persone, come potrà mai esserlo nella loro vita? Pastori senza pecore e pecore senza pastori? Pastori salariati meno disposti alla cura dei fedeli e dei loro bisogni spirituali rispetto a medici e infermieri del corpo? Per grazia conosco preti che non abbandonano le pecore malate, anzi le vanno a cercare e a curare affinché vivano in pienezza”.

Siamo soli, chiusi in casa e fin qui niente di drammatico. Il problema è che abbiamo dentro la tristezza di vacillare di fronte al bisogno d’amore che viene dalla Pasqua e non sappiamo come viverla: il video è consolatorio, lo capiamo; la preghiera è troppo solitaria, lo sentiamo. Ci resta la sofferenza, che nemmeno una furtiva presenza in chiesa potrebbe risolvere. Quella sofferenza che nessun vaccino al mondo può risolvere. Ci resta solo la possibilità di guardare il Crocifisso, di fissarci solo su di Lui e di sentirci uniti a Lui per risorgere con lui dopo tre giorni, alla faccia del coronavirus.