Tamponi a tutto…risparmio

Non voglio metterla sul patetico e infatti parto cinicamente con una battutaccia per sdrammatizzare il clima che sta montando ogni giorno di più. Un amico di mio padre, quando la compagnia slittava verso argomenti piuttosto tristi, reagiva con questa uscita: “Ragas, parläma ed còzi alégri: co’ costarala ‘na càsa da mòrt?”.

Però non posso rimanere sul tragicomico e devo per forza virare sul drammatico: mio padre stava per arrivare al traguardo, aveva ormai poche ore di vita, aveva perduto conoscenza e assieme a mia sorella manifestammo l’intenzione di rimanere al suo capezzale in ospedale per quella che per lui ormai sembrava l’ultima notte. Niente da fare. La regola voleva che rimanesse solo una persona per, come disse sarcasticamente mia sorella, “divertirsi a veder morire il proprio padre”. Non ci fu verso. Ricordo di aver detto al medico responsabile, peraltro giovane componente di una famiglia amica: «Pur con tutto il rispetto per la vostra professione, voi state facendo una sanità a vostra misura e non a misura d’uomo». Mio padre quella notte morì, rimasi io vicino a lui fino a quando si intravide la fine e telefonai a mia sorella, che era tornata a casa ad aspettare una mia chiamata definitiva.

Perché ho ricordato questo triste episodio? Perché ho avuto l’impressione che, dal punto di vista sanitario, la lotta contro il coronavirus fosse partita di gran carriera puntando sulla diagnosi precoce e sulla difesa delle persone: tamponi a tutto spiano (l’unico strumento per individuare il contagiato, isolarlo, curarlo adeguatamente anche a difesa dell’incolumità altrui).  Poi, strada facendo, il discorso si è ridimensionato per motivazioni strutturali: la spesa eccessiva dei tamponi, l’impiego di troppo personale, gli ospedali intasati, il sistema a rischio collasso.

In Italia, si dice, abbiamo il miglior sistema sanitario esistente al mondo, con punte di eccellenza soprattutto nelle regioni più colpite dal coronavirus. Sarà anche vero, ma alla prova emergenziale le strutture sembrano andare in tilt. Si scarica il discorso sulla “inutil precauzione” e ci si limita a fare accertamenti solo in casi di conclamata e grave sintomatologia: se andiamo avanti così, faranno probabilmente il tampone solo a chi è in coma. L’ordine sembra esser quello di dedicarsi solo ai casi obiettivamente più chiari e gravi.

Della serie non si può andare al bancone dei bar, ma si può avere la febbre a trentanove gradi, aspettando che passi con la tachipirina. Misteri del coronavirus.  Da una parte ho l’impressione che si intenda coprire, per lo meno in parte, la verità, sfoltendo la processione dei tamponi, dall’altra vedo un allarmismo pazzesco fomentato da misure preventive da tempo di guerra. Il filo logico, se può mai esservi, ha tentato di trovarlo il premier Giuseppe Conte, in una equilibrata e finalmente non più troppo reticente dichiarazione pubblica. Ha ammesso che l’obiettivo di fondo è quello di contenere la diffusione del virus (di più non si può fare) e di renderla compatibile con le nostre strutture sanitarie al collasso. Meglio saperlo, per sapersi regolare.

Mettiamoci d’accordo! Di fronte a tutto ciò v’è chi cerca di fregarsene altamente e di continuare la propria vita nella normalità. V’è chi si fa prendere dal panico e dalla paura e non vive più. Conte ha proposta una terza via della ragionevolezza e del buon senso. Non so se ci riusciremo. Una cosa è certa: alla fine dei colloqui, che si hanno con persone amiche, durante i quali la lingua va sempre a finire su questo argomento, non è un caso che si concluda sempre il discorso con uno “speriamo bene”, che la dice lunga non sulla virtù della speranza, ma sul realismo della rassegnazione.

E pensare che non volevo scrivere niente sul coronavirus…