Non fermate il mondo, io non voglio scendere

Era il 26 settembre 2001, cioè poco più di due settimane dopo gli attentati alle Torri Gemelle, quando Michele Serra, su Repubblica, lanciò il suo appello affinché i giornali ricominciassero ad occuparsi anche di altro, oltre che della notizia unica del momento, allora Ground Zero. Oggi, bisognerebbe farlo col coronavirus, non per nascondere la sporcizia sotto il tappeto, ma per smettere di battere la lingua solo dove il dente duole. I denti sono 32 e non si può curarne solo uno, lasciando andare in malora gli altri.

Purtroppo sono costretto a tornare sul dente che monopolizza la bocca mediatica. Cerco almeno di farlo cum grano salis, anche perché, indipendentemente dalla classificazione del rischio che comporta il coronavirus, mi sembra si stia prendendo la direzione sbagliata: non so se stiamo sparando con un cannone al moscerino, sicuramente ci stiamo sparando cannonate sui piedi. Si fa un gran parlare, discutere e decidere sul discorso di sostenere l’economia, come si fa, nel caso di chemioterapie per bloccare il tumore, al fine di rafforzare il fisico indebolito dalle cure necessarie, ma spesso devastanti.

Il paragone però non tiene: nel fisico si sa dove si può intervenire per compensare i deficit provocati nella lotta contro il tumore; nel tessuto economico non si sa da che parte voltarsi e si rischia di spargere risorse inutili e inefficaci. Il problema di fondo è infatti il crollo della domanda, provocato dalla paura e dai provvedimenti restrittivi: non si viaggia, non si gira, non si consuma, si sta rintanati in casa, si evitano gli spostamenti, si annullano gli incontri di tutti i tipi. Il gioco della domanda e dell’offerta è sempre e comunque falsato, in questo momento è interrotto.

O ripristiniamo, seppure in modo equilibrato e sensato, il clima economico-sociale in cui viviamo, oppure non ci saltiamo fuori. Non accetto il discorso della pubblica amministrazione delegata all’istituto superiore di sanità: la scienza, come sostiene giustamente il presidente della Repubblica, deve essere un riferimento forte e imprescindibile, ma non basta perché occorrono scelte di altro tipo. La politica è fatta di compromessi ai livelli più alti fra le diverse opzione delle forze in campo, ma è anche fatta di compromessi fra il bene maggiore e il male minore. E non è detto che il male minore a lungo andare non si riveli come il bene maggiore, mentre incaponirsi sulla difesa oltranzistica del bene maggiore può significare paralizzare la situazione sul punto di difesa senza più poter andare all’attacco. Sarebbe come se una squadra di calcio giocasse solo nella propria metacampo per la paura di subire dei gol: prima o poi i gol si subiranno comunque, meglio correre il rischio per ripartire e rimediare il risultato finale.

Che senso ha chiudere le chiese e vietare le celebrazioni comunitarie? Scrive autorevolmente Andrea Riccardi: «Un forte segnale di paura. Ma anche l’espressione dell’appiattimento della Chiesa sulle istituzioni civili. Le chiese non sono solo “assembramento” a rischio, ma anche un luogo dello spirito: una risorsa in tempi difficili, che suscita speranza, consola e ricorda che non ci si salva da soli».

A proposito di risorse in tempi difficili, il mio caro amico e grande uomo di cultura, Gian Piero Rubiconi, senza avere intenti megalomani e spendaccioni, riteneva che la cultura, la musica in particolare, fosse una opportunità imprescindibile anche e soprattutto nei periodi di crisi. «Proprio quando l’economia va male è il momento di investire nella cultura, per fare argine alla crisi che trascina in basso i valori e per stimolare i consumi di prodotti che non si logorano nel tempo». Sono stranamente d’accordo co Vittorio Sgarbi quando stigmatizza gli interventi penalizzanti sulle istituzioni culturali, musei, mostre, rassegne: la cultura, senza fare demagogia a rovescio, è il miglior antidoto al coronavirus, che si combatte più impostando un clima di serena convivenza e di solidarietà che alzando impossibili barriere e isolando la gente con assurde quarantene o peggio ancora scatenando un clima di caccia alle streghe e/o agli untori.

Sono quasi sicuro che, gira e rigira, riapriremo prima gli stadi delle chiese, delle scuole, dei musei. Niente contro i campionati di calcio e degli altri sport, ma in una scala di valori socio-culturali c’è qualcosa che viene prima e su cui vale la pena di rischiare qualcosa. Invece di fare a gara a chi combatte meglio contro il coronavirus, provino a fare discorsi seri alla gente, non prendendola in giro, ma trattandola come si fa con le persone serie: si ragiona, si valuta, si collabora e si decide per il meglio. A volte tutto il male non viene per nuocere, purché serva a scuoterci e a responsabilizzarci. Proviamoci, lasciando da parte le polemiche e mettendo nel cassetto le bacchette magiche.

Il profeta Daniele fa dire a Dio in occasione di situazioni gravissime, di fronte ad autentici disastri combinati dagli uomini: «Su, venite e discutiamo». Se lo fa Dio, forse lo possono fare anche i nostri governanti, alle prese con certe emergenze: “Discutiamo, prima di partire in tromba”. So che è difficile, ma proprio per questo conviene discutere e trovare soluzioni al minor rischio possibile e non alla maggiore garanzia impossibile.