L’arte di approcciare l’arte

Esistono due modi di intendere e vivere la cultura: l’ostentazione di una mera erudizione che punta ad apparire al di fuori della realtà; l’impegno ad approfondire il pensiero per meglio porsi di fronte alla realtà. Nel primo caso si fugge dalla realtà della vita per farne una raffinata e snobistica parodia, nel secondo caso per cultura si dovrebbe intendere quanto concorre alla formazione dell’individuo sul piano intellettuale e morale e all’acquisizione della consapevolezza del ruolo che gli compete nella società o più comunemente il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite tramite lo studio, ai fini di una specifica preparazione in uno o più campi del sapere e del vivere.

Questa premessa dovrebbe servire a cogliere il senso di due fatti di pur diversa natura e portata. Da una parte il discorso di “Parma 2020 capitale della cultura”, dall’altra parte la sospensione delle procedure culturali a causa dell’emergenza coronavirus. Cosa voglio dire? Abbiamo la tendenza a esaltarci o a deprimerci sulla base della presenza o dell’assenza della pur importantissima ritualità culturale, come se la cultura dovesse prescindere dalla realtà o prevalere su di essa, asservendola a sé invece di influenzarla positivamente.

Con tutto il rispetto per chi ha lavorato per programmare e sta lavorando per allestire i numerosi (troppi) eventi riconducibili alla celebrazione di Parma, faccio fatica a intravedere un disegno di vera crescita culturale al di là dell’enfasi sulle potenzialità parmensi. Tento di fare un esempio per spiegarmi. Cosa produce una sbornia museale? Una sorta di obbligo ad ammirare l’opera d’arte, ma non serve a creare nella gente la capacità di porsi di fronte all’opera d’arte per cavarne un messaggio veramente culturale.

Durante la mia lunga e bella esperienza all’interno della commissione teatrale del Regio di Parma ebbi l’occasione di incrociare episodicamente il professor Luigi Magnani, noto critico d’arte. Avevamo programmato un’insistita incursione nelle opere del cosiddetto “primo Verdi”: pensavamo di fare un’operazione culturale interessante proponendo al pubblico il Verdi minore, tutto da scoprire nelle sue affascinanti premesse alla produzione musicale matura. Mi gelò il sangue, complimentandosi ironicamente per queste scelte d’avanguardia, annotando acutamente, come stessimo portando acqua al mulino della genericità e superficialità critica. Disse fuori dai denti (cito a senso): «Andrà a finire al Regio come spesso succede nei musei: il superficiale visitatore di pinacoteche si sofferma a lungo davanti ad un quadro “di scuola” e passa velocemente oltre davanti al capolavoro. Grave sintomo di impreparazione ed incompetenza, ma anche e soprattutto di carenza educativa in materia artistica».

Faccio un secondo esempio per il coronavirus: è certo molto negativo che l’educazione artistica subisca una brusca sforbiciata a causa delle concomitanti proibizioni delle gite scolastiche e chiusura dei musei al pubblico. Ma siamo proprio sicuri che sia un disastro? Cerchiamo di essere (pro)positivi. Perché non pensare di rimettere in circolo le risorse forzatamente risparmiate, promuovendo qualche corsetto extra-curriculare in cui insegnare l’arte di approcciare l’arte. Lo si fa, se non erro, nelle università degli anziani. Le agenzie turistiche non ne saranno immediatamente soddisfatte o rimborsate, ma alla lunga il turismo troverà comunque un alimento più nutriente e sostanzioso e soprattutto i giovani ne ricaveranno qualche utile elemento di formazione culturale in progress.

A volte tutto il mal non vien per nuocere: il discorso può valere per lanciare lo smart working, che viene tradotto come “lavoro agile” e consiste nel poter lavorare da casa. Nel resto d’Europa è una pratica consolidata ma in Italia, anche se ne sentiamo parlare ormai da anni, solo meno del 5% dei lavoratori può affermare di poter lavorare davvero da casa. La nuova emergenza sanitaria ha portato il tema in prima pagina e ha legittimato e instaurato uno smart working de facto che sta salvando numerose imprese del Settentrione. Non potrebbe succedere così anche per una sorta di “smart making culture”. Pensiamoci…