La fuffa delle parole e la carità dei gesti

In questi giorni ho partecipato, solo inizialmente, ad un confronto a livello web sulle problematiche ecclesiali “emergenti dall’emergenza”. Ho offerto il mio modestissimo contributo, tentando di esprimere, come un solo interlocutore ha riconosciuto, il turbamento, i sentimenti, gli interrogativi, i dubbi che sono dentro di me di fronte a questa prova quasi insopportabile (vedi precedente commento del 18 marzo). Poi il dibattito, pur interessante e dotto (fin troppo, perché non è questo il momento di esibire preparazione teologica e biblica, ma di aprire il cuore), ha preso una piega intellettualoide, che mi ha sinceramente bloccato. E allora ho preferito appartarmi per non disturbare e per non sembrare patetico.

Però non si può, quando uno sta morendo di fame, fargli un panegirico dietologico, bisogna dargli qualcosa da mangiare perché non muoia di fame. Gesù alla folla che lo seguiva ha offerto pane e pesci, solo dopo si è azzardato a fare il discorso sul pane di vita. In questo momento siamo affamati di salute, attanagliati dalla paura, siamo sempre più angosciati per un morbo che non ci fa solo morire, ma che impone un disumano modo di morire. È questo il punto sconvolgente: sono terrorizzato, come penso in molti, al solo pensiero di essere isolato dalle persone che amo, di non poter comunicare con esse, di essere lasciato umanamente solo a combattere e tragicamente solo a morire.

Il problema è questo: possono la fede, la speranza e la carità, mie, dei miei fratelli e delle mie sorelle, della comunità cristiana, venire in mio soccorso? Non mi interessa se a templi aperti o chiusi, a messe celebrate o immaginate, a carico dei preti o dei laici, a Concilio ignorato o incarnato: seppure in buona fede, queste dissertazioni hanno un sapore farisaico che mi disturba. Ci sarà qualcuno a tenermi la mano mentre soffrirò e morirò? Questo è il problema. Le lezioncine teologiche, bibliche e liturgiche le lascio al dopo-coronavirus, adesso ho bisogno di sopravvivere o di morire con un poco di pace interiore. Qualcuno me la può donare? Canonicamente temo proprio di no: solo papa Francesco dimostra di avere il carisma di cuore e infatti seguo con le lacrime agli occhi le sue omelie da Santa Marta. Mi sento unito a lui anche perché credo si stia caricando di tutte le angosce al fine di presentarle a quel Dio di cui è vicario in terra. Umanamente, amichevolmente e cristianamente, un po’ di pace la trovo solo nelle parole di chi mi ama, di chi mi è in qualche modo vicino. Sarà forse questa la superiorità, teorizzata da san Paolo, della carità su tutto?

Anche la preghiera, in cui tuttavia mi viene spontaneo rifugiarmi, mi appare comunque inadeguata (per colpa mia) a rasserenarmi l’animo, a togliermi dalla disperazione prima ancora di essere disperato. Senza voler esagerare, era in questa drammatica situazione Gesù nell’orto degli ulivi. Poi arrivò un angelo a confortarlo. In quel momento non bastava la preghiera, non era sufficiente la fiducia in Dio, occorreva che una creatura intervenisse in suo aiuto. Quindi prego, ma aspetto che mi vengano accanto due creature in particolare. Mia madre, che prima di morire mi ha promesso di essermi vicina; mio zio Ennio sacerdote che ha promesso con le parole e coi fatti di essere mio protettore. Non uno, ma due angeli. La comunione dei Santi! In questo momento, chiedo scusa a tutti coloro che imbastiscono bei discorsi, il resto è fuffa.