Al spetacol l’è fnì e al stadio ‘l s’vuda

Mio padre non era un soggetto che seguiva le partite in modo distaccato; era molto coinvolto, amava il calcio, (lo considerava lo sport più bello del mondo, perché semplice, giocabile da tutti, molto comprensibile, affascinante e trascinante nella sua essenzialità, spettacolare nella sua variabilità ed imprevedibilità), sentiva fortemente l’attaccamento alla squadra della sua città (soprattutto nelle partite stracittadine con la Reggiana soffriva fino in fondo) e non sottovalutava il fenomeno “calcio” (fotball come amava definirlo in una sorta di inglese parmigianizzato). Era però capace di sdrammatizzarlo, di razionalizzarlo, di criticarlo e ridimensionarlo. Chissà cosa direbbe in questi giorni osservandolo con gli occhiali del coronavirus.

Sulla scena ci sono ben cinque protagonisti: vediamone il comportamento. Iniziamo dagli attori principali: i giocatori. Ebbene, questi professionisti spesso superpagati, vezzeggiati e osannati, hanno paura del coronavirus. Fin qui niente di strano, tutti abbiamo paura e cerchiamo di difenderci, di non cadere però dalla prudenza al panico. La loro professione indubbiamente li espone al rischio contagio: il calcio è fatto di contrasto fisico, di contatti ravvicinati, di rapporti strettissimi. Lasciamo perdere le effusioni assai poco professionali, che sanno di incitamento più che di soddisfazione. Risulta però che i calciatori siano costantemente controllati da medici, sottoposti a test e difesi con l’adozione di prassi igienico-sanitarie negli ambienti dove si svolge la loro attività.  La domanda è: deve prevalere la cautela o è meglio interrompere completamente la loro attività in attesa di tempi migliori? Non voglio fare demagogia, ma tante altre categorie di lavoratori, pubblici e privati, sono a rischio eppure lavorano adottando misure protettive. Ma il calcio non è essenziale, non fa parte delle attività di pubblica utilità, quindi sarebbe opportuno sospendere il tutto? La faccenda si fa pirandelliana. E se sospendere volesse dire bloccare tutto per un lungo periodo, mettere in crisi un sistema per non riprendere mai più alle stesse condizioni?

Secondo protagonista: la dirigenza delle società calcistiche e delle loro federazioni e leghe. A questo livello il sistema sta esprimendo il peggio di sé. Tutti guardano la cassetta e difendono scriteriatamente i propri interessi di bottega. Giocare senza pubblico è un danno. Rimborsare gli abbonati forse non è obbligatorio. I contratti con le tv a pagamento vanno difesi con le unghie e coi denti. Rivoluzionare i calendari può falsare i campionati. Non si riesce a trovare un minimo di accordo sul da farsi. Si naviga a vista in una assurda incertezza, che aggiunge confusione e apprensione al clima già surriscaldato di per sé.

Ed eccoci al terzo protagonista: i media. Questi, come sta avvenendo per tutta l’emergenza coronavirus, più che informazione fanno uno squallido show. Ci marciano a più non posso, fanno sfoggio di protagonismo, soffiano sul fuoco delle polemiche, si autocandidano a perno attorno a cui far girare il circo pallonaro. Sotto sotto hanno una paura folle di perdere il loro ruolo, si ergono a difensori del sistema, sputano sentenze, fanno sfoggio di ricette miracolistiche, dicono e disdicono tutto e il contrario di tutto. Fin che la barca va…

Il quarto incomodo protagonista: il ministro dello sport. Vincenzo Spadafora è passato da un giusto scetticismo verso il sistema calcio (vedi “Non mi preoccupo dello stress dei milionari calciatori costretti ad un super lavoro per ricuperare i rinvii; sono molto più interessato alle fatiche di medici, infermieri, operatori sanitari costretti ad un superlavoro, a turni faticosi, a rischi di contaminazione, etc.”) alla proposta della trasmissione televisiva in chiaro delle partite giocate senza pubblico (una sorta di circenses al posto del pane), dalla scelta di rinviare all’autogoverno calcistico le opzioni di fondo pur nell’ambito delle indicazioni governative globali ed universali (della serie vedetevela voi, perché a me scappa da piangere…) alla tentazione di sospendere il tutto per decreto (dando ascolto a quei calciatori che qualche giorno prima non meritavano attenzione). Evviva la coerenza!

Il quinto protagonista è il pubblico, quello degli spalti vuoti, quello delle tv a pagamento, quello del tifo sentimentale e quello del tifo sbracato e violento. Non c’è più, non si vede e non si sente. Soffre e tace. Si esprime solo sui social aizzato dai media, in una sorta di ignobile connubio fra chi mangia il pane a tradimento e chi lo ha fino ad ora pagato a caro prezzo. Dove sono finiti i cori razzisti, gli sfoghi pseudo-politici, le guerre fra curve, le scaramucce intorno agli stadi, le violenze annesse e connesse al calcio? Pausa: non di riflessione, ma di autocompassione. Volendo parafrasare Renzo Pezzani, si potrebbe dire:”Al spetacol l’è fnì e al stadio l svuda”.

Ho cominciato, come spesso accade, citando gli insegnamenti paterni. Concludo con un episodio tutto mio (mio padre non c’entra perché riguarda il periodo del Parma in serie A ed era ormai troppo anziano per frequentare lo stadio). Il Parma era stato promosso in serie A dopo un campionato trascinante ed entusiasmante, finalmente salivamo nell’Olimpo: da parte mia non ripudiavo gli anni difficili, quelli gloriosi e sofferti. La partita d’esordio in serie A ci metteva in soggezione davanti alla Juventus ed un pubblico strabocchevole si preparava a varcare i cancelli del “Tardini”, ampliato, ristrutturato, messo a nuovo anche se non ancora pronto per un ruolo diverso. Si respirava un’aria di attesa ma anche di confusione e di disorganizzazione da esordio, tale da creare una ressa pazzesca all’ingresso ed una lunga coda sotto un sole ancora cocente, in un clima nuovo a cui non si era abituati. Mi venne spontanea una battuta, molto meno bella rispetto a quelle che elargiva mio padre con la sua solita nonchalance, che tuttavia risultò abbastanza buona e fu accolta con una risata generale: “Mo se stäva bén quand al Pärma l’era in serie B o C. A s’ gnäva al stadio a l’ultim minud, sensa còvvi e sensa confuzjón. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”.

Non vorrei che, dopo un lungo periodo di chiusura degli stadi o, peggio ancora, di sospensione dei campionati, alla ripresa della kermesse mi capitasse di pensare amaramente ad alta voce: “Mo se stäva bén quand an gh’era miga il partidi par via dal coronavirus. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”. Volete scommetterci che andrà a finire così? Anzi, speriamo vada a finire così: vorrebbe dire che abbiamo passato la nottata, senza perdere il giusto spirito critico, anzi accumulando ancor più spirito critico verso il nostro sistema, che va ben oltre il calcio, senza poterne fare a meno.