Prescrizione lunga e (non) seguitate

In Italia, diceva Vittorio Zucconi, il grande giornalista prestato per qualche tempo alla politica, si vogliono i servizi segreti pubblici. Siamo cioè il Paese del paradosso e “ci divertiamo” ad affrontare i problemi in questa chiave. Anche il dibattito sul tormentone della prescrizione ne risente.

Bisogna varare prima possibile la riforma del processo penale che accelera i tempi delle indagini preliminari e dei procedimenti. Il motivo? Con la riforma della prescrizione, in vigore dal 1° gennaio del 2020, aumenterà il carico di lavoro della corte di Cassazione. Lo ha detto il Primo presidente della Suprema corte Giovanni Mammone nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, presso la corte di Cassazione alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Mammone ha spiegato cosa succederà con la riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio se l’esecutivo non dovesse approvare in tempi stretti la riforma del processo penale. “Nel momento in cui sul dato delle prescrizioni non ha ancora inciso la disciplina della sospensione dopo la sentenza di primo grado, è utile evidenziare quali conseguenze potrebbero derivare da tale innovazione al giudizio di legittimità, una volta entrata a regime e perciò non prima di cinque anni, tale essendo il termine di prescrizione per i reati contravvenzionali puniti in modo meno grave”, ha detto il presidente della Suprema corte. “Accanto ad un’auspicabile riduzione delle pendenze in grado di appello derivante dall’attesa diminuzione delle impugnazioni meramente dilatorie, si prospetta un incremento del carico di lavoro della Corte di cassazione di circa 20.000-25.000 processi per anno, corrispondente al quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado. Ne deriverebbe un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato, nonostante l’efficienza delle Sezioni penali della Corte di cassazione, le quali definiscono già attualmente circa 50.000 procedimenti annui. Risulta, pertanto, necessario porre allo studio e attuare le più opportune soluzioni normative, strutturali e organizzative tali da scongiurare la prevedibile crisi che ne deriverebbe al giudizio di legittimità, ha spiegato Mammone.

Cosa vuol dire tutto ciò? Che la struttura giudiziaria è tarata sul numero dei processi al netto della inevitabile prescrizione e non tenendo conto che tutti i processi potrebbero arrivare all’ultimo grado di giudizio. Mi sovviene quanto diceva un mio carissimo collega esperto in materia fiscale: per mettere in crisi la macchina dei controlli basterebbe inondare la struttura pubblica di dichiarazioni dei redditi fasulle. Per mettere in gravissima difficoltà la Cassazione basta aprire il rubinetto dell’allungamento dei tempi della prescrizione. In pratica il sistema giudiziario è fondato sulla propria inefficienza, che manda in prescrizione i procedimenti e lascia respirare i tribunali e le corti, quella di Cassazione in particolare.

L’uovo di Colombo, che tutti vedono ma nessuno pratica, consiste nella ragionevole durata del processo: se i processi fossero più veloci si starebbe nei tempi e il discorso della prescrizione si sgonfierebbe. D’accordo, ma il rischio intasamento dei livelli più elevati rimarrebbe comunque. Quindi torniamo al gatto che si morde la coda, a meno che il potenziamento strutturale non sia tale da mettere in grado la giustizia di giudicare tutti in fretta, sperando che la fretta non sia cattiva “sentenziera”.

Una cosa è certa, e il M5S se la deve mettere bene in testa: non basta allungare i tempi della prescrizione per costringere la giustizia a funzionare e tanto meno ad assicurare alla giustizia i colpevoli. Della serie “è arrivato un altro delinquente, prescrizione lunga e seguitate”. La prescrizione risponde ad un principio costituzionale che, come tutti i principi e i diritti, può essere abusato: non per questo si giustificano le limitazioni dei diritti. È una logica pericolosissima che, portata all’eccesso, finisce col calpestare lo stato di diritto a favore della ragion di stato. Il dissesto idrogeologico non si risolve solo a valle alzando e rinforzando gli argini, ma a monte rispettando la morfologia del terreno. Il discorso vale anche per il funzionamento della macchina giudiziaria.

Il dibattito, dal livello governativo a quello parlamentare, dalla magistratura all’avvocatura, dalla dottrina al giornalismo, si sta avvitando su se stesso, radicalizzando sui massimi principi, abbassando sulle strumentalizzazioni politiche e sulle istanze corporative: sempre meglio la guerra della discussione che la pace dei sepolcri. Tuttavia un po’ più di serenità non guasterebbe.

Sì, perché, alla fine, la scuola la fanno gli insegnanti, la sanità la fanno i medici, la cucina la fanno i cuochi e la giustizia la fanno i giudici: tutto il resto è un contorno importante, essenziale, ma non decisivo. C’è troppa confusione nella cucina giudiziaria: nei ristoranti che si rispettano, c’è il viavai dei camerieri che gridano le ordinazioni, ci sono i pentolini e i pentoloni che bollono, gli sguatteri che sbucciano le patate, ma tutto dipende dal carisma dello chef. Possiamo avere una legislazione (quasi) perfetta, un ministro all’altezza del compito, tutti i computer possibili e immaginabili, tutti i migliori cancellieri ed uscieri, tutti i più bravi avvocati del mondo, se incappiamo in un giudice che non sa o non vuole fare il proprio mestiere… Non ci aiuterà la prescrizione, lunga o breve che sia.