Insicuri e disoccupati

Qual è la vera e reale insicurezza di cui stiamo soffrendo, alla quale i famigerati decreti voluti da Salvini non fanno neanche il solletico, per la quale, anzi, le chiacchiere leghiste suonano come un’autentica presa in giro?

Parto dal titolo e dall’incipit di un articolo di Andrea Greco su La Repubblica. Unicredit: 8 mila nuovi esuberi. Dal credito all’industria, 400 mila impieghi a rischio. Al Mise ci sono 160 casi di crisi aziendali. Il lavoro che non vale più, declassato, schiacciato dal capitale con il martello della tecnologia. E il settore delle banche, dove ormai tre operazioni su quattro non passano dalla filiale, fa scuola. Così ieri Unicredit ha annunciato altri 8 mila esuberi (il 12% della forza lavoro) nel suo piano dei prossimi quattro anni: 6 mila sono stimati in Italia. Servono a risparmiare un miliardo e accelerare il passaggio al digitale.

Ricordiamo tutti come il posto di lavoro in banca fosse considerato il non plus ultra della sicurezza e della remunerazione. È cambiato tutto! La paura che caratterizza la nostra società è quella inerente l’assenza e/o la precarietà del lavoro: i giovani faticano a trovarlo, se lo trovano si devono adattare a basse remunerazioni e ad impieghi a breve termine; chi finalmente lo ha trovato non si può illudere di mantenerlo, perché tutto è in continua e rapida evoluzione e dall’oggi al domani ci si può trovare disoccupati. Le conseguenze a livello psicologico e sociale sono di enorme portata: i legami sentimentali sono messi a repentaglio, le famiglie non reggono, non si fanno figli, il malcontento cresce, le prospettive sono incertissime.

Bisogna essere matti per pensare che a tranquillizzare la gente serva il poter sparare al ladro senza soffrirne conseguenze penali. Oppure che rispedire a casa gli immigrati consenta nuovi posti di lavoro per i giovani e i disoccupati in genere. Sono barzellette che funzionano da diversivo rispetto ai veri problemi.

Spesso mi chiedo cosa si debba e si possa fare di fronte a questa situazione così preoccupante. Nessuno ha la bacchetta magica e nessuno può permettersi il lusso di promettere migliaia di posti di lavoro. Però qualcosa bisognerà pur metter in cantiere. Individuo tre piste su cui provare a camminare.

Innanzitutto la scelta dell’indirizzo scolastico deve coniugare le opzioni culturali ed esistenziali con la possibilità di effettivo lavoro. Capisco come questa logica possa rappresentare una rinuncia alle proprie vocazioni professionali, ma meglio essere concreti e puntare agli sbocchi possibili piuttosto che rimanere attaccati alle nuvole che non offrono alcuna seria prospettiva.

In secondo luogo bisogna individuare nuovi profili professionali adeguati all’evoluzione socio-economica, così come nuove metodologie in linea con i tempi e l’organizzazione del lavoro. I giovani, per dirla con una battuta provocatoria e brutale, dopo avere studiato nella giusta direzione professionale, devono “inventarsi” il lavoro. Persino concettualmente faccio fatica ad accettare un simile discorso, ma è così.

In terzo luogo occorre una spinta economica impressa dagli investimenti pubblici nei settori dell’ambiente, della cultura, della difesa del suolo, del turismo, promuovendo anche grosse riconversioni aziendali e professionali. Ma anche l’imprenditorialità privata deve essere sostenuta, aiutata e sollecitata.

Indietro non si torna, certi meccanismi sono superati: l’unico principio che non deve essere superato riguarda la centralità della persona e il suo diritto a lavorare senza rischiare la pelle e con certe tutele a livello previdenziale. La sfida alla sinistra politica è questa: riuscire a dare serie prospettive di lavoro alla gente. Probabilmente occorrono grossi sacrifici a livello finanziario. Qualche privilegio dovrà saltare. Serve diminuire le tasse? Servirebbe farle equamente pagare a tutti ed utilizzare le conseguenti risorse per crescere e non per vivacchiare. La coperta è corta, la stanza è piccola, ma non ci si può illudere di risolvere i problemi sulla pelle dei più deboli. Tutti se lo devono mettere nella testa, nel cuore e…nel portafoglio. Ci fu una discussione accesa sul primo articolo della Costituzione italiana. Ne uscì “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. A oltre settant’anni di distanza questa definizione è sempre più appropriata e valida.