Il Vangelo della discontinuità

In politica, fra un’elezione e l’altra, fra un governo e l’altro, si cerca la discontinuità a tutti i costi. Ci si vuole distinguere dai predecessori nello stile e nei contenuti e spesso non si riesce a farlo, perché certi indirizzi non possono essere facilmente invertiti, certe scelte non possono essere sbrigativamente azzerate, certe situazioni non possono essere totalmente ribaltate. E allora ci si accontenta di giocare allo scaricabarile delle responsabilità su chi c’era prima e dall’altra parte di soffiare sul fuoco delle attese andate deluse.

Poi la discontinuità deve anche fare i conti con la propria misura: radicalità o moderazione. Chi si pone in alternativa rispetto alla dirigenza in sella, deve stare attento a non esagerare evitando il rischio di passare per disfattista, al contrario deve evitare di ammorbidire troppo le proposte per non sembrare una minestra scaldata.

In Italia qualcuno sta dicendo che Salvini nella recente campagna elettorale regionale abbia alzato troppo i toni, abbia spinto troppo sul pedale dell’alternativa totale, finendo col favorire uno scatto d’orgoglio dell’avversario dimostratosi decisivo.

Negli Usa le elezioni primarie nel partito democratico alla ricerca del candidato anti Trump stanno evidenziando dubbi e tentennamenti fra scelte di radicale contrapposizione al presidente uscente e quelle di una più ragionata opposizione. Tutto sempre per non scontentare l’elettorato moderato, vale a dire quella opaca e grigia entità di mezzo, che condizionerebbe sempre e comunque l’ottenimento di una maggioranza. Mentre a destra un simile discorso può avere un suo potenziale fondamento (peraltro smentito nelle urne italiane dalla debacle forzitaliota), atto a rassicurare l’elettorato incline a non sporcarsi le mani indossando i guanti bianchi, a sinistra il corteggiamento al “moderatume” finisce con lo scontentare tutti, delegittimando sostanzialmente la politica progressista.

Protagonista di questa cantonata strategica è attualmente in Italia Matteo Renzi, preoccupato di occupare l’area di centro senza comprendere che la sinistra, eventualmente, va moderata dall’interno e non creando insane e controproducenti fratture esterne. Negli Stati Uniti le elezioni primarie del partito democratico, pur costretto al sistema bipolare, stanno rischiando di frantumare il già debole fronte alternativo alla sciagurata politica trumpiana.

Se il discorso della discontinuità, più o meno accentuata, è connaturale alla politica, costituendo il sale della competizione democratica, nella Chiesa si punta alla continuità a tutti i costi.  Qualcuno potrebbe immediatamente essere tentato dall’inquadramento della Chiesa istituzione in un regime antidemocratico e quindi dalla spiegazione della continuità ecclesiale nel solco della statica vita di una comunità irregimentata e incapsulata. In questo schematico ragionamento c’è qualcosa di vero: il mantenimento del potere clericale impone la sordina ad ogni esigenza di cambiamento.

La Chiesa però è dotata anche di una dimensione comunitaria, che non combacia affatto con quella gerarchica e istituzionale. Chi è credente, come il sottoscritto, tende ad intravedere in questa salutare dicotomia l’azione dello Spirito Santo, che scombina le carte e butta all’aria meccanismi ed equilibri di potere. Chi non è credente si smarrisce e tende a privilegiare se non addirittura ad assolutizzare l’assetto strutturale nella sua statica e inattaccabile logica.

L’elezione al soglio pontificio di Bergoglio è stata indubbiamente una sassata nella piccionaia curiale, che ha privilegiato una visione evangelica e comunitaria rispetto alla tradizionale impostazione dottrinale e istituzionale. Ed eccoci però purtroppo al discorso della discontinuità nella continuità, al dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: è un meccanismo in cui rischiano di essere schiacciate anche le migliori intenzioni riformatrici di papa Francesco.

Come noto è uscito un libro scritto da un autorevole membro della curia vaticana, sponsorizzato dal papa emerito Benedetto XVI, ingenuamente (?) trascinato in una pericolosa e scivolosa querelle sul celibato sacerdotale: è partito cioè un subdolo e furbesco fuoco di sbarramento contro il profilarsi dell’avanzata di un seppur moderato riformismo. Un messaggio chiaramente volto a interrompere sul nascere ogni e qualsiasi parvenza di discontinuità. Ebbene, come scrive Domenico Agasso jr su La Stampa, a pochi giorni di distanza è uscito un libro finalizzato a dimostrare come sul celibato dei preti Francesco la pensi come Giovanni Paolo II. Lo definisce “un dono, una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa cattolica latina. E non un limite. E se oggi c’è chi lo chiama «Papa comunista», a Buenos Aires Bergoglio è stato «percepito come un conservatore», per la sua «sintonia» con Wojtyla. Il Pontefice argentino lo dice nelle pagine di San Giovanni Paolo Magno, in uscita l’11 febbraio per le edizioni San Paolo. Dal libro, attraverso l’intervista rilasciata a don Luigi Maria Epicoco, emergono le affinità tra gli arcivescovi di Cracovia e Buenos Aires, «presi» entrambi da «Paesi lontani» per farli salire sul Soglio di Pietro. Un volume che può assumere un ruolo rilevante nelle accese dispute dentro e fuori della Chiesa, perché Wojtyla è stato «arruolato» e viene spesso utilizzato come simbolo del fronte ostile al pontificato bergogliano, soprattutto per quanto riguarda gli ambiti politici e teologici, mentre Francesco ha rispedito più volte al mittente questa contrapposizione.

Non riesco a comprendere se questa mossa editoriale sia una intelligente e improvvisa apertura di porta verso coloro che danno le spallate o se rappresenti il solito tira e molla vaticano mirante ad un anti-evangelico vogliamoci bene. Non invidio papa Francesco costretto a destreggiarsi in questo clima. Spero non sacrifichi, in nome della mera continuità, le giuste discontinuità che ha lasciato intendere suscitando tante aspettative interne ed esterne alla Chiesa. Penso sia consapevole della forza che gli può venire da gran parte (non tutta) della Chiesa-comunità, credo si affidi molto allo Spirito Santo (come interpretare diversamente i continui appelli alla preghiera pro domo sua), auspico che riesca a plasmare o almeno a ritoccare la Chiesa- istituzione. Starà cercando il compromesso al più alto livello possibile? Gesù di compromessi non ne fece nel modo più assoluto. Lo uccisero, ma Lui risorse più bello e più rivoluzionario che pria. Non pretendo la vocazione al martirio di papa Francesco, ma che, Vangelo alla mano, resti un pochettino rivoluzionario o almeno discontinuo.