Il mio ruspante antifascismo a prova di revisionismo

Se la storia è la concatenazione di fatti, comporta in sé la conseguenza di rivedere continuamente i propri giudizi alla luce delle novità emergenti. Non si tratta di senno del poi, ma di riesame critico alla luce delle verità del passato e delle situazioni presenti. La morte di Giampaolo Pansa ha scatenato la polemica sul revisionismo.

Parto, come spesso mi accade, dall’eredità culturale a livello familiare. Mio padre mi ha trasmesso una concezione inossidabile dell’antifascismo. Innanzitutto in quanto l’antifascismo era parte integrante e fondamentale della sua vita, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Su questo non si poteva discutere: quando mia madre timidamente osava affermare che però Mussolini aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare.

In secondo luogo perché resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär“.

Tutto ciò non vuol dire santificare acriticamente la resistenza e i partigiani: anche per loro in mezzo a tante luci esistono delle ombre. Negare le ombre non vuol dire vedere meglio le luci, anzi. Ho letto diversi libri di Pansa su questa delicata materia. Ero partito con qualche pregiudizio, ma, strada facendo, l’ho superato e non ho trovato una denigrazione del movimento resistenziale, ma una sua rilettura critica alla luce di certe indubbie degenerazioni ideologiche e comportamentali. Ne sono uscito arricchito e niente affatto sconvolto.

Leggo quindi con sconcerto quanto scrive Tomaso Montanari su Micro Mega: “Pansa è stato uno dei più efficaci autori dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla “guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel grande schermo». E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «In generale l’Italia sta cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno. C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano revisionismo storico»”. Se Montanari voleva dire che non si dovrebbe scherzare col fuoco del revisionismo, sono d’accordo. Se voleva dire che forse Pansa si è lasciato trascinare in un vortice critico, rischiando pure lui di fare d’ogni erba un fascio, può darsi abbia ragione. Se voleva lanciare un appello alla cautela e alla prudenza per evitare di portare acqua al mulino della legittimazione del neofascismo, posso concordare. Non mi sento tuttavia di catalogare tout court Giampaolo Pansa tra gli amici del giaguaro della nostra storia.

Ho atteso con grande interesse l’uscita del film sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, quale coraggiosa reazione alla messa fuorilegge disposta da Mussolini dopo alcuni anni dalla sua salita al potere. È fortunatamente in atto la riscoperta di questo movimento, a cui convintamente ed operosamente aderì mio zio, don Ennio Bonati. Il film è indubbiamente un’ammirevole ricostruzione romanzata di una fase della vita dello scoutismo italiano, impegnato nell’antifascismo quale scelta esistenziale ed etica prima che politica. Il film è bello: un’occasione per conoscere e rinverdire la storia dello scoutismo anche e soprattutto nella sua generosa e coraggiosa azione antifascista e nel salvataggio delle vittime della violenza, da qualsiasi parte e in qualsiasi momento venisse. Il punto è questo: una parte di chi aveva combattuto il fascismo non è riuscito a deporre le armi, ma si è fatto trascinare in un’opera di giustizialismo spicciolo e sbrigativo, che, se da una parte può essere comprensibile, dall’altra ha innescato una spirale di inutile violenza finendo nel colpevolizzare degli innocenti e creare ulteriori vittime. Questo non toglie niente ai valori dell’antifascismo, ma chiede un supplemento di analisi critica sul post-fascismo. Se questo vuol dire revisionismo, mi sta benissimo.

Così come è sacrosanto ammettere come dal punto di vista ideologico l’antifascismo abbia dovuto fare i conti con l’incombente macigno comunista. Il dopoguerra ha vissuto, fortunatamente in modo pacifico, il duro scontro fra l’opzione per l’impostazione democratica di stampo occidentale e il riferimento alla democrazia di tipo sovietico. La storia ha dato ragione ad una parte senza bisogno di criminalizzare l’altra: questo è il dato caratteristico dello stile democratico. Sbagliava indubbiamente chi riteneva che l’antifascismo dovesse approdare ad un sistema comunista.  Se questo vuol dire revisionismo, mi sta benissimo.

Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito). Mi sia permessa una caustica riflessione: forse costruivamo dal basso, senza saperlo, il vero partito democratico, molto più di quanto stiano facendo dall’alto gli attuali aspiranti leader. Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Lasciatemi ricordare con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente. Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da questa convinta e costante ricerca del dialogo, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi. Questo vuol dire antifascismo a prova di revisionismo.