Fra l’autopsia di un movimentone e l’incubatrice di un partitino

Il primo governo Conte aveva nel fianco una spina e mezzo: quella intera veniva dalla Lega, che non mancava occasione per mettere il premier di fronte a continui fatti compiuti e per scavalcarlo brutalmente; la mezza spina era quella pentastellata, preoccupata vieppiù del ruolo preminente che il presidente andava conquistando e dell’autonomia che egli riusciva a strappare. Ad un certo punto il fianco si è squarciato e ne sono usciti guai seri per i torturatori, costretti gli uni a mettere la coda fra le gambe e andare all’opposizione, gli altri a bere la tazza della discontinuità politica, mentre il torturato riusciva a spuntare una posizione migliore a livello istituzionale, in campo nazionale, europeo e mondiale.

Il secondo governo Conte continua a soffrire una situazione anomala nella sua maggioranza di governo: un partito, il M5S, che tende ad abbandonare l’aplomb partitico per riscoprire l’inquietudine movimentista, costretto a rifugiarsi nelle piazze per lavare in pubblico i panni sporchi e per attuare stucchevoli bagni purificatori rispetto alle ingombranti scorie  conseguenti alle tentennanti e contraddittorie scelte governative; un partitino nascente, Italia viva, alla spregiudicata e spasmodica ricerca di spazio politico ed elettorale  senza andare per il sottile e creando, un giorno sì e l’altro pure, grane al governo di cui fa parte ed a cui ha concesso la fiducia. Gli uni strizzano l’occhio alla piazza, gli altri all’opposizione o meglio all’elettorato moderato in parte controllato dal centro-destra. Siamo in presenza di una riedizione riveduta e scorretta del cosiddetto partito di lotta e di governo.

Paolo Pombeni, storico, politologo ed editorialista di chiara fama, nel marzo del 2017 analizzava acutamente la nascita e la presenza della paradossale natura di partito di lotta e di governo.  “Lo stereotipo del partito di lotta e di governo viene fatto risalire agli anni Settanta e alla leadership di Berlinguer che voleva avvicinare quantomeno il PCI all’area governativa senza che questo mettesse in crisi la sua immagine di formazione in lotta contro il “sistema”. In verità si tratta di quello che una volta si chiamava “doppiezza” comunista: ai tempi della fondazione del sistema repubblicano e dei governi di larga coalizione, quando Togliatti voleva l’accordo con la DC senza rinunciare al controllo delle proteste di piazza. Si potrebbe risalire ancora più indietro, per esempio alla partecipazione del partito comunista francese ai governi del Fronte Popolare nel 1936, perché sempre si presenta a sinistra il tema di come far convivere la spinta a qualche radicalismo rivoluzionario con la necessità di praticare qualche forma di gradualismo una volta che si entri nella famosa stanza dei bottoni. Anche qui, per essere realisti, bisogna aggiungere che il tema non va circoscritto ai partiti di sinistra. A suo modo il problema ce l’aveva anche la DC, che dovette più di una volta far convivere le richieste del massimalismo clericale (che portava voti) con l’esigenza di mostrare responsabilità nella gestione dei problemi concreti del paese (ciò che la legittimava rispetto alle classi dirigenti del paese). Si potrebbe aggiungere che la questione è stata endemica nel nostro paese in presenza di governi di coalizione: fosse una coalizione di centrodestra o una di centrosinistra c’era sempre una dialettica fra quel che si riteneva si potesse fare nelle stanze del Consiglio dei Ministri e quel che si riteneva doveroso richiamare imperiosamente nelle stanze delle direzioni di partito. Gli esempi si sprecano anche se hanno dato luogo necessariamente a tensioni ingovernabili solo nei momenti più aspri. Per il resto tutto veniva considerato come un normale gioco delle parti”.

Perché la riedizione la giudico scorretta? Perché totalmente priva di strategia, quale poteva essere quella pur problematica ed equivoca del partito comunista, e quindi bloccata su mere strumentalizzazioni elettoralistiche, perché lontana dalla vivacità culturale presente all’interno della logorante egemonia sistemica democristiana, perché culturalmente ben distante dal peso che i partiti di centro prima e il partito socialista poi hanno avuto nelle coalizioni di governo centriste e di centro-sinistra della prima repubblica. Tanto per fare qualche nome eloquente: non abbiamo i Moro, i Fanfani e gli Andreotti della DC, non abbiamo i La Malfa, i Saragat, i Malagodi dei partiti di centro, non abbiamo i Berlinguer del PCI. Dobbiamo fare i conti con i Di Maio e i Di Battista del M5S e con i Renzi di Italia viva. I grillini tornano a lanciare qualche vaffa rispolverando le loro battaglie più demagogiche (il taglio degli stipendi ai parlamentari e la drastica diminuzione del loro numero). I renziani si atteggiano a coscienza critica moderata rispetto al partito democratico (sulla prescrizione e sulla revoca delle convenzioni autostradali).

In mezzo a queste baruffe il premier Conte sta mediando a tempo pieno, ma si sta logorando: il gioco infatti è bello quando è corto. Le sue ultime mosse sembrano un ultimatum indirizzato a nuora (IV) perché anche suocera (M5S) intenda.  Il grosso dello scontro è fra Giuseppe Conte e Matteo Renzi. I colpi sono sempre più bassi: Renzi accusa Conte di tenere per il giaguaro di una eventuale nuova maggioranza senza Italia viva e rimpolpata dalla truppa raccogliticcia dei fuorusciti pentastellati, forzitalioti, più vari ed eventuali; Conte e il PD temono la ripetizione del siluramento lettiano (il famoso “stai sereno”) con un benservito a Conte stesso, sostituito da un esponente del partito democratico con cui fare direttamente i conti (si fa il nome di Gualtieri che darebbe garanzie di continuità verso l’UE) o da una figura istituzionale ( rispunta il nome di Mario Draghi) dietro cui nascondere la battaglia politica estrapolata dal governo.

Ho troppa stima e considerazione per il presidente della Repubblica per pensare che possa soggiacere a simili pasticci: il gioco quindi si fa duro, perché dopo il governo Conte bis non ci potrà essere un governo Conte ter o un governo tecnico-istituzionale. La parola passerebbe agli elettori in un clima pazzesco per il futuro della nostra democrazia. Confido molto nell’asse responsabile Conte-Mattarella, nella esagerata pazienza del partito democratico, nella furbizia di Beppe Grillo e nella paura delle urne (molti le vogliono, ma in realtà molti le temono anche fra quelli che fingono di volerle). Forse ci dobbiamo abituare a un governo di lotta interna e di pace esterna? Troppo difficile per essere vero!