Sul filo del rasoio elettorale

Cifre da capogiro: al Senato sono stati presentati 4.550 emendamenti alla manovra economica varata dal governo Conte II e di questi ben 1.700 sono proposti dai parlamentari della maggioranza. L’approvazione della legge di bilancio, con tutti gli annessi e connessi, è sempre stata un tormentone politico-parlamentare, ricettacolo di tutte le questioni, di tutte le rivendicazioni, di tutte le marchette possibili e immaginabili. In un certo senso, niente di nuovo sotto il sole.

La questione assume però i contorni di una beffa se si pensa a come è nato e sta vivendo il governo Conte II: la compagine ministeriale avrebbe bisogno di cercare e trovare una sostanziale legittimazione con un minimo di compattezza a livello parlamentare fra le diverse forze della maggioranza e invece su ogni problema si scatena una litigiosità, che costringe il governo a stare in bilico come fa un equilibrista sul filo.

È vero che il Parlamento non è un organismo di mera ratifica dell’operato governativo, ha una sua funzione specifica a livello istituzionale, è titolare del potere legislativo, ma deve pur sempre esprimere una maggioranza altrimenti diventa un “pirlamento” qualsiasi, degno soltanto di essere sciolto e mandato a casa.

È inutile nasconderlo: prevalgono clamorosamente gli interessi di partito, tutti stanno a calcolare le convenienze in tal senso e l’unico collante rischia effettivamente di essere quello di evitare le elezioni anticipate, guadagnare tempo in vista della scadenza elettorale per la presidenza della Repubblica, rinviare a tempi migliori il redde rationem con il centrodestra a guida leghista. Non mi scandalizzo affatto: la politica è fatta anche di scelte contingenti riguardo al male minore. Se è così, bisogna però avere la freddezza ed il buon senso di condizionare la propria specificità politica all’obiettivo. Se non ci si può dividere per precisi calcoli di convenienza politica, ci si deve rassegnare a vivere in casa, seppure da separati, ed è perfettamente inutile continuare velleitariamente a rivendicare la propria libertà di manovra.

I cinquestelle sanno perfettamente che buttare all’aria il governo e andare alle elezioni sarebbe per loro un suicidio assistito; gli italiani vivi (amici di Renzi) si rendono conto di non essere assolutamente pronti a sostenere una prova elettorale che li  ridurrebbe ai minimi termini; i piddini sono consapevoli di vivere un momento di grande incertezza strategica e di notevole impaccio tattico e otterrebbero con ogni probabilità la vittoria di Pirro di monopolizzare per lungo tempo l’opposizione alla destra governante.

E allora si litiga nel poco per andare d’accordo nel molto, ma il poco è molto e può saltare il banco da un momento all’altro. Non c’è questione su cui la maggioranza di governo dimostri uno straccio di compattezza. Figuriamoci sulla madre di tutte le questioni, la manovra economica. Tirare la corda è lo sport preferito all’interno della maggioranza giallo-rossa nella convinzione che la fune non si spezzerà, perché irrobustita dalle convenienze di cui sopra.

Anche il precedente governo, fondato sulla coesistenza rissosa tra pentastellati e leghisti, giocava a litigare, ma c’era uno dei litiganti che era sicuro di poterselo permettere, la lega di Salvini, fino al punto da buttare tutto all’aria per andare alla conta elettorale. Volevano le elezioni e non le hanno ottenute. Paradossalmente il governo giallo-rosso non può permettersi di litigare più di tanto perché non vuole le elezioni e…rischia di averle. Credo che la causa fondamentale di eventuali prossime elezioni politiche anticipate non sarà tanto il risultato elettorale emiliano-romagnolo del prossimo gennaio, ma la insulsa e inconcludente litigiosità della maggioranza di governo.

I partner sono sostanzialmente quattro: il movimento cinque stelle con una leadership apparente in stato confusionale, una leadership occulta volutamente e cinicamente nascosta, una strategia completamente assente e camuffata dietro le solite e banali sparate populiste da quattro soldi; il partito renziano o Italia viva come dir si voglia, a cui non manca la leadership, ma con una strategia a misura strettamente ed asfitticamente renziana; Leu (Liberi e uguali, ex Pd) alla disperata ricerca dell’asettico purismo di sinistra, vedovi della lotta e delle masse, con molte chiacchiere e pochi fatti; il Partito democratico, l’unico vero partito superstite del nostro sistema democratico, dotato di una classe politica presentabile, sempre in mezzo al guado fin dai tempi del PCI, diviso al proprio interno e amleticamente incerto fra una scelta progressista moderata e una opzione ideologicamente radicale.  Quattro giocatori intorno al tavolo: dovrebbero essere costretti ad andare d’accordo per i motivi suddetti, ma la tentazione di rompere infantilmente il giocattolo è molto forte. E si vede.