Siamo diventati gli accattoni della politica estera

Secondo Federico Fubini, editorialista e vice-direttore del Corriere della Sera, i dazi imposti dagli Usa ai prodotti italiani vanno ben oltre la reazione americana agli sgarbi europei consistenti in sussidi pubblici concessi a Airbus, ma si inquadrano in una vera e propria guerra commerciale volta a punire l’Italia per le sue scelte filocinesi di politica commerciale ed a premiare lo stato del Wisconsin che ha regalato nel 2016 la Casa Bianca a Donald Trump.  Da una parte ci sarebbero le arance italiane che volano in Cina e dall’altra i formaggi italiani che rompono i coglioni al suddetto stato operaio e agricolo. Mentre la seconda economia del mondo si è sì aperta alle arance italiane, la prima si è chiusa. Gli Stati Uniti hanno alzato un muro tariffario. Non solo sugli agrumi della Sicilia orientale, ma di tutto il Paese. Dal 18 ottobre, le arance e i limoni sono diventati la prima categoria di frutta a entrare in blocco nella lista dei beni da export per circa 400 milioni di euro soggetti ai dazi punitivi del 25% fissati dagli Stati Uniti.

Ma la prima serie di dazi include il made in Italy per 47 categorie di prodotto. La stessa lista dei beni colpiti rivela molto delle intenzioni di Trump e delle sue priorità. Perché il presidente non opera solo con la diplomazia delle arance. Più della metà dei beni coperti da dazi al 25% coincidono con i migliori formaggi italiani: parmigiano e parmigiano reggiano, mozzarella, pecorino, romano, provolone, groviera, gorgonzola. Viene colpito a tappeto il settore del made in Italy che compete più direttamente con la principale industria del Wisconsin: con 5,8 milioni di abitanti contro 60 milioni, questo Stato americano è testa a testa con l’Italia come quarto produttore mondiale di formaggi, in volume. È specializzato nell’«Italian sounding», il plagio dei marchi: formaggi definiti «asiago», «fontina», «parmesan», «provolone» e un prodotto chiamato «mozzarella» più abbondante (mezzo milione di tonnellate l’anno) di quello italiano. Trump sa che per rivincere nel 2020 non può avere pietà dell’Italia, ma deve curare questo Stato che produce un terzo del formaggio «Italian sounding» consumato negli Stati Uniti.

Secondo Federico Fubini, di cui ho riportato letteralmente il succo dell’impietosa analisi, non è chiaro oggi chi possa protestare da Roma. Gli stessi americani se lo stanno chiedendo. Di Maio ha avocato agli Esteri i poteri sul commercio, ma non ha ancora scelto a quale sottosegretario assegnarli. Quel ruolo è conteso fra Manlio Di Stefano (M5S e piuttosto protezionista) e Ivan Scalfarotto (Italia Viva, aperto agli scambi). Dopo quasi due mesi, il governo va avanti con un vuoto di potere in un posto oggi vitale. Fin qui le contingenti manchevolezze da parte italiana.

Mi sembra però preoccupante al limite dello sconforto che l’Italia stia perdendo un partner fondamentale: Donald Trump se ne sbatte altamente del nostro Paese e dell’Europa, fa esclusivamente i propri interessi. Mi si dirà che gli americani hanno fatto così da sempre aiutandoci soltanto dietro contropartite notevoli in termini di schieramento mondiale. Ora che il mondo è cambiato e sta cambiando, tutto è rimesso in discussione e l’Italia si ritrova sempre più sola, ultima ruota del carro Ue e ininfluente a livello internazionale. Fanno pena i politici che vanno negli Usa o dialogano con gli Usa per pietire qualche elemosina; stupiscono i politici che pensano di fare dispetto alla moglie trumpiana facendosi tagliare i coglioni dalle amanti russe, cinesie persino est-europee; meritano compatimento i politici che pensano di poter fare a meno dell’Europa e alzano la voce in casa, per poi chinare miseramente il capo non appena mettono il naso fuori dalla porta. Possibile che non si possa elaborare uno straccio di politica estera, che vada al di là delle sciocche rimostranze nazionaliste e sovraniste e dei balbettamenti dei potenziali europeisti?