L’uovo dell’ambiente o la gallina dell’economia

In questi giorni ho cercato di approfondire il discorso dell’Ilva, vale a dire del salvataggio di questa importante azienda nella produzione di acciaio. Non so se non sono stato capace di scovare i discorsi seri, ma ho letto solo argomentazioni polemiche sul comportamento del governo e delle forze politiche: tutto il discorso si riduce all’opportunità o meno di concedere agli acquirenti uno scudo penale inerente i reati ambientali commessi nel tempo da questa azienda.

Sul punto particolare si scontrano due tesi: una, possibilista e pragmatica che giustifica l’automatica esenzione dai risvolti penali di chi subentra nella proprietà e nella gestione dell’acciaieria, l’altra giustizialista e intransigente, che ha peraltro comportato l’eliminazione dagli accordi stipulati della salvaguardia penale. Questa inversione di marcia ha offerto l’occasione alla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal di ritirarsi dalla trattativa, prendendo forse spunto dallo scudo penale per ripensare all’investimento alla luce delle difficoltà del mercato dell’acciaio e di conseguenza riconsegnare l’azienda recedendo dal contratto d’affitto dello stabilimento di Taranto con i suoi 10.777 lavoratori.

Non sono in grado di giudicare il comportamento dei governi che hanno affrontato la situazione in questi ultimi anni: probabilmente l’instabilità ha creato equivoci e contraddizioni, aggiungendo difficoltà a difficoltà. Così come risulta impossibile verificare le reali intenzioni dei vertici di Arcelor Mittal: non è improbabile che abbiano avuto dei ripensamenti e che quindi il discorso ritorni al punto di partenza. Una bella grana da tutti i punti di vista: per l’economia italiana, per i lavoratori, per il mezzogiorno.

Vorrei però riflettere un attimo su quello che, a mio modesto avviso, è il problema di fondo: la politica industriale nelle sue compatibilità con i problemi ambientali e di salute pubblica. L’Ilva ha creato situazioni gravi a livello ambientale, tali da richiedere opere lunghe e costose di bonifica ed una costosa revisione dei processi produttivi. Mi chiedo brutalmente: viene prima la salvaguardia della salute dei lavoratori e dei cittadini o la garanzia dell’occupazione in un settore così importante come quello della produzione dell’acciaio?

Sembrerebbe la brutta e drammatica riproposizione della questione dell’uovo e della gallina. Ci dobbiamo rassegnare a rivedere sostanzialmente i piani industriali, non possiamo continuare, come se niente fosse, a rovinare l’ambiente ed a puntare su produzioni senza futuro o comunque con un futuro assai incerto e problematico. Occorre coraggio strategico e visione larga e lunga. Di fronte a questo nodo vedo un po’ tutti disorientati e titubanti: gli imprenditori non riescono ad affrontare responsabilmente i mercati globalizzati ed a rispondere all’esigenza di ripensare gli investimenti in una logica di rispetto dell’ambiente; i sindacati dei lavoratori sono fortemente condizionati dalle preoccupazioni contingenti della salvaguardia dei posti di lavoro; i politici non hanno la lungimiranza necessaria e si limitano a litigare giocando allo scarica barile di fronte a problematiche epocali; gli economisti, come al solito, pontificano, ma non ci pigliano mai.

Il problema viene presentato come un duello tra fazioni politiche e tra la politica e l’industria. Così facendo non si fa certamente un buon servizio all’informazione ed al dibattito. Credo che nessuno abbia ricette pronte; sarebbe già tanto se problemi di tale portata fossero affrontati con maggiore serietà, con auspicabile sincerità, con spirito costruttivo e con coraggiosa vena programmatica.  Non vado oltre, anche se gradirei che la discussione affrontasse il vero punto dolente, quello appunto di un’economia rispettosa dell’uomo e dell’ambiente, che, come sostiene papa Francesco, sono le due facce della stessa medaglia.