Allerta rossa a Hong Kong

Ammetto di avere glissato sulle proteste di Hong Kong e sulle realtà che esse denunciano: sono stato fuorviato dai fatti di casa nostra e ho ripiegato sulle polemiche di basso profilo, dimenticando che alla base della convivenza ci sta il rispetto dei diritti umani in qualsiasi parte della terra.

Da alcuni mesi Hong Kong è al centro di forti tensioni a causa di proteste di massa e manifestazioni contro il governo. Tutto è cominciato dall’opposizione a una legge controversa sulle estradizioni in Cina, che con il passare delle settimane si è trasformata in qualcosa di molto più grande. I milioni di cittadini che marciano puntualmente nell’ex colonia britannica chiedono fondamentalmente più democrazia. La maggior parte dei manifestanti sono pacifici, ma non mancano episodi di violenza. Il quartier generale del governo è stato preso d’assalto e l’aeroporto internazionale della città è stato bloccato varie volte. Intanto i disordini sono cresciuti nel corso delle settimane e a Pechino la temperatura si alza, facendo temere per un intervento militare della Cina.

Hong Kong appartiene alla Cina, ma di fatto è una regione amministrativa speciale. Ha una sua moneta, un sistema politico e una sua identità culturale. Questo rapporto che mette insieme appartenenza e indipendenza è previsto dalla formula “Una Cina, due sistemi”, espressione con cui si indica la soluzione negoziata per il ritorno nel 1997 di Hong Kong sotto la giurisdizione cinese, dopo che per 150 anni dalla fine della Guerra dell’Oppio era stata una colonia britannica. Oggi il sistema giuridico di Hong Kong rispecchia ancora il modello britannico e i principi sono garantiti dalla costituzione, la Basic Law, che si basa sulla Common Law e che tutela diritti diversi da quelli dei cinesi continentali. Tra questi ci sono il diritto di protestare, stampa libera e libertà di parola. In generale la legge stabilisce anche che la città abbia “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto la politica estera e la difesa. La Basic Law assicura “la salvaguardia dei diritti e le libertà dei cittadini” per 50 anni dopo la riconsegna alla Cina (fino al 2047).

Molti residenti sostengono che Pechino stia già iniziando a violare questi diritti. Già nel 2014 Hong Kong era stata scossa da proteste durate quasi tre mesi, note come la “rivolta degli ombrelli”. Le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino di riformare il sistema elettorale di Hong Kong. La proposta, poi non adottata, è stata percepita come una misura estremamente restrittiva dell’autonomia della regione, perché comportava l’equivalente di una “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito Comunista Cinese (Pcc). L’attrito tra gli abitanti di Hong Kong e la Cina continentale non è dunque una novità degli ultimi mesi. Questa percepita minaccia allo stato di diritto di Hong Kong ha fatto riaccendere il timore nell’ex colonia britannica innescando le proteste che finora, hanno visto centinaia di manifestanti finire in manette.

I manifestanti hanno avanzato richieste sostanzialmente riconducibili all’ottenimento di maggiori libertà democratiche. Con il passare delle settimane i funzionari di Hong Kong e di Pechino sono diventati sempre più duri nei confronti delle proteste. Su Hong Kong grava l’ombra dell’intervento militare di Pechino. Da metà agosto Pechino ha schierato contingenti di truppe armate a Shenzhen, sul confine continentale di Hong Kong. Si sta lentamente avvicinando il momento per l’ex colonia britannica di cominciare a negoziare con Pechino per mantenere anche solo una minima parte del grado di autonomia di cui ora gode. Per la Cina, stabilità e sicurezza sono legate a doppio filo con i propri obiettivi di sviluppo economico, e proprio per questo Pechino le ritiene fondamentali: alla luce delle proteste di questi giorni, c’è il rischio concreto che in nome della stabilità la leadership comunista cinese accentui il livello di risolutezza nei confronti della società civile di Hong Kong, incrementando nel corso dei prossimi anni le ingerenze in un territorio considerato come “instabile”. Il timore è quindi che la Cina possa ordinare un intervento di forza.

Le note di cui sopra le ho tratte da un articolo pubblicato su Sky Tg24. Ho anche visto qualche servizio televisivo, che mi ha scosso e interrogato. “Le immagini che arrivano da Hong Kong sono tremende, così forti e drammatiche da sembrare scene di un film d’azione esagerato. Invece è la drammatica realtà, di fronte a cui restiamo inerti spettatori. Il silenzio dell’Italia e dell’Europa è vergognoso “. Lo dichiara la segretaria di Possibile (partito politico italiano, fondato a Roma nel 2015 da Giuseppe Civati, uscito dal partito democratico), Beatrice Brignone, sulla repressione delle proteste a Hong Kong. “I manifestanti – aggiunge Brignone – chiedono solo più democrazia e diritti, ricevendo in cambio la violenza delle forze dell’ordine. Il governo italiano deve denunciare con forza questi fatti gravissimi, portando la questione all’ordine del giorno nell’Unione europea e chiedendo un confronto civile. Bisogna farlo subito, anche perché la situazione sta precipitando”.Un bel tacer non fu mai scritto” (più raramente, il bel tacer non fu mai scritto oppure un buon tacer non fu mai scritto) è un noto proverbio italiano il cui significato è: “la bellezza del saper tacere al momento opportuno non è mai stata lodata a sufficienza”. Lo stanno (lo stiamo) applicando alla lettera confondendo però il saper tacere con la paura di parlare.

In effetti tutti tacciono e nessuno ha il coraggio di inimicarsi la Cina, che sta spadroneggiando in tutto il mondo, comprandosi aziende, terre, strutture di vario tipo. Ogni Stato ha “buoni” motivi per tenere rapporti decenti con la Cina, ci sono in ballo interessi economici enormi e nessuno vuole rischiare di aprire spiacevoli contenziosi. Gli Usa di Trump fanno finta di litigare con la Cina inscenando la pantomima della guerra dei dazi. Il colosso cinese è riuscito nel processo inverso a quello innescato da Michail Gorbaciov in Unione Sovietica: Gorbaciov è partito dalle riforme in senso liberale delle istituzioni politiche, fallendo purtroppo nel suo intento e consegnando l’economia nelle mani del peggior capitalismo, quello di stampo squisitamente mafioso; i cinesi sono partiti dalle riforme economiche omologando il loro sistema al più sfrenato dei capitalismi, salvando la brutta faccia del loro sistema politico comunista.

Il mondo occidentale deve fare i conti con lo strapotere economico cinese e non può permettersi “il lusso” di contestarne il regime comunista, che mantiene intatte le smanie dirigiste ed espansioniste. Come leggo sul Corriere della Sera, in Vaticano stanno analizzando da mesi la causa e le implicazioni delle proteste a Hong Kong, ma non hanno ancora assunto una posizione ufficiale. Sanno che si tratta di un tema al quale la Cina è ipersensibile: ancora di più dopo gli ultimi scontri sanguinosi. Qualunque presa di posizione può incrinare l’accordo temporaneo e segreto di due anni con il regime di Pechino sulla nomina dei vescovi: un’intesa da confermare e rinnovare nel settembre del 2020, e tuttora circondata da un alone di mistero e diffidenze. Si tratta di un attendismo che rischia di apparire, oltre che frutto di realpolitik, di subalternità a Pechino. «Forse», è la novità delle ultime ore, «il Papa parlerà delle proteste a Hong Kong sul volo per il Giappone. Ma solo se sarà sollecitato da una domanda», spiegano gli uomini di Francesco. Si tratterebbe dunque di un commento sollecitato, non di una dichiarazione ufficiale e scritta: a conferma della delicatezza del tema.

Ancora una volta la ragion di Stato prevale, come diceva Marco Pannella, sullo stato di diritto. Nell’indifferenza generale: spero che mentre gli Stati fanno i pesci in barile, almeno il nascente e interessante movimento delle “sardine” abbia la sensibilità di alzare lo sguardo verso i luoghi dove si calpestano i diritti dell’uomo e si incarcera o ammazza chi osa protestare.