La rottura a caldo

La storia, passata e recente, è piena di scissioni all’interno di partiti e movimenti, che generalmente non hanno fatto bene a nessuno, né a coloro che, più o meno sdegnosamente, hanno abbandonato la casa, né a chi è rimasto chiuso in casa, né agli attoniti aderenti alla casa, che se la sono vista spartire o addirittura sparire sotto gli occhi. Alle valide ma forzate motivazioni ideologiche si sono spesso aggiunte inevitabili ma dannose spinte personalistiche. Sto grossolanamente generalizzando, ma credo di non essere molto distante da una lettura obiettiva degli accadimenti politici.

Ho preso un’opportuna rincorsa storica per approcciare una questione che avvelena i rapporti interni al partito democratico: da tempo soffia aria di scissione. Sulla sinistra se ne sono andati i vedovi della foresta burocratica post-comunista. Al centro sembra se ne stiano andando gli inconsolabili nostalgici della balena bianca post-democristiana. Sto brutalmente semplificando i termini della questione.

Il partito democratico è nato prematuramente dopo essere stato frettolosamente concepito in provetta, ma ormai è nato e bisogna tenere conto che da una separazione il figlio gracile e pieno di problemi ne uscirebbe disorientato e danneggiato. Posso capire le ragioni di tutti anche se spesso non ne condivido lo spirito. Lasciamo stare il fallimento annunciato di Leu, l’ennesimo partitino della sedicente sinistra pura e dura. Ora siamo alle prese con le smanie renziane di occupare il centro del ring a costo di prendere un sacco di botte. Si intravede una incontenibile voglia di rivincita associata al desiderio di rispondere alla necessità di avere una forza politica autenticamente liberal-democratica, collocata in Europa a dispetto del resto del mondo, che sta andando disperatamente verso altre soluzioni politiche di stampo populista.

Questo teorico progetto rischia di buttare o di accantonare l’acqua sporca del burocratismo e dello snobismo di sinistra assieme al bambino palpitante dell’uguaglianza e della giustizia sociale.  Oltre tutto questa insofferente e insopprimibile spinta nuovista prende corpo proprio nel momento in cui il PD sta riprendendo quota: ha promosso un governo in cui detiene cariche importantissime, ha recuperato ruolo, spazi e protagonismo a livello europeo, sta faticosamente elaborando una strategia per difendere la sua presenza a livello territoriale.

Matteo Renzi ha spinto sull’acceleratore del governo con i cinquestelle anche se ha lasciato intendere una concezione di tale operazione politica più di necessità che di virtù. Abbandonare il campo sarebbe comunque una decisione avventata e spregiudicata. Non vorrei che allo “stai sereno” rivolto qualche anno fa a Enrico Letta, se ne aggiungesse uno rivolto a Zingaretti e Conte. Non si può nemmeno mettere continuamente il partito sotto la spada di Damocle di una scissione: sarebbe uno stillicidio molto pericoloso. Renzi dica cosa vuol fare e la smetta di giocare a nascondino persino con le istituzioni democratiche. La mia montante delusione nei suoi confronti raggiungerebbe l’apice.

Vedo anch’io, modestamente e dal mio punto di vista piuttosto defilato, tutti i difetti di questo partito: mi ero illuso potesse sintetizzare al meglio la cultura politica del cattolicesimo democratico con quella del socialismo democratico. Nel mio impegno politico ero sempre stato orientato in tal senso: nel mio piccolo, dalle fila della sinistra DC lanciavo sfide dialogiche ai comunisti disponibili al percorso democratico. Quando si costituì il partito democratico mi considerai ingenuamente e presuntuosamente un profeta: finalmente si avverava il sogno della mia militanza politica. Forse mi illudevo, ma prima di affossare questo disegno vale la pena riflettere con molta pazienza. Non è il caso di sostituire una fusione a freddo con una rottura a caldo.