La twittata è fatta

Nel bel mezzo della crisi di governo, a consultazioni quirinalizie aperte, con la ricandidatura in bilico a livello delle trattative per la nuova maggioranza giallo-rossa, improvvisamente arriva un chiaro e netto endorsement trumpiano via twitter a favore di Giuseppe Conte e della sua conferma a palazzo Chigi.

Un episodio che, nella sua stranezza e originalità, induce a qualche riflessione (al di fuori della stucchevole manfrina sui poteri forti). Si tratta della conferma della simpatica ammissione di Conte ai tavoli dei big della politica a livello internazionale: egli è fra l’altro fresco reduce dalla partecipazione al G7 di Biarritz, in cui avrà probabilmente, anche se discretamente, informato gli illustri colleghi dell’incertezza istituzionale gravante sulla sua posizione. Non può che far piacere tutto ciò, anche se l’entrata a gamba tesa di Trump crea qualche imbarazzo: proprio nel momento in cui Conte si appresterebbe a presiedere un governo in controtendenza rispetto al sovranismo dilagante, il padre di tutti i sovranisti della terra lo riconosce indirettamente come figlio e si compiace in esso (alla faccia della velleitaria e sciocca corsa salviniana alla primogenitura trumpiana). Non esageriamo e lasciamo stare la puzza di invadenza americana sgorgante dalla twittata del presidente Donald Trump: appare comunque come una sorta di contraccambio rispetto al primo atto di politica internazionale compiuto da Conte più di un anno fa al suo debutto da premier, quando andò a baciare la pantofola del tycoon.

È vero che nel provocatorio e tardivo discorso della corona fatto in Senato, prendendo di mira “le birichinate” di Matteo Salvini, tra gli innumerevoli rimproveri rivolti all’insopportabile partner governativo, Conte aveva inserito lo sgarbo della vicenda, ancora tutta da chiarire, del tangentizio “Russiagate” in cui il capo leghista è rimasto invischiato per ingenuità o per complicità: Salvini  ha costretto il presidente del Consiglio a porgere i chiarimenti del caso in Parlamento con tanto di rinnovo alla storica linea di adesione italiana al campo occidentale e all’atlantismo. Da una parte quindi il tweet di Trump sembra chiudere il cerchio di un ritorno definitivo della politica italiana nel solco filo-occidentale dopo le scorribande leghiste (e non solo) verso la Russia di Putin, dall’altra parte suona come compromettente e indiretta adesione  alla non celata linea antieuropeista di  Donald Trump, che ama vezzeggiare i singoli paesi europei più vicini alla sua sconclusionata strategia  anziché dialogare con l’Europa tutta a livello delle sue istituzioni comunitarie. Attenzione quindi, perché Giuseppe Conte, dopo la boccata d’aria fresca del dopo-Salvini, rischia il raffreddore dall’aria gelida dell’illustre, ma oggi più che mai viscido, alleato americano.

Con la politica estera non si scherza e uno dei punti deboli del governo pentaleghista è stato proprio quello di girovagare ai margini della Ue e dell’alleanza occidentale alla ricerca di una pruriginosa autonomia internazionale. Quando si pensava che il pericoloso gioco fosse finito ecco Giuseppe Conte, che rischia di ricadere nel pericolo opposto, quello dell’appiattimento sugli Usa in chiave antieuropeista. Se resterà, come ormai sembra, a Palazzo Chigi, ne parli con Sergio Mattarella, scelga un ministro degli Esteri autorevole e tranquillizzante, inserisca i chiarimenti del caso nel programma di governo e nel discorso di insediamento davanti alle Camere.

Per fortuna il “Conte rampante” ha avuto la freddezza di ostentare un certo distacco dalla bagarre politica andando a fare shopping nel centro di Roma con il figlio. Come non ricordare il precedente che ci fa andare indietro nella storia. Durante i burrascosi lavori del Consiglio nazionale della DC che nel 1975 sostituì Amintore Fanfani alla segreteria con Benigno Zaccagnini, in piena bagarre Aldo Moro ebbe la geniale idea di assentarsi momentaneamente dal consesso surriscaldato per recarsi in via Condotti a comprare una cravatta. Con quella mossa riuscì a stemperare il clima e a completare un autentico capolavoro politico, sfiduciando Fanfani ma ricuperandolo nella nomina di Zaccagnini, il quale restituì credibilità popolare alla DC, iniziando un nuovo corso fatto di dialogo e di apertura a sinistra (Il male c’è, ma Benigno…, si diceva e si scriveva allora). Chissà che il banale, ma curioso, gesto di Conte non sia di buon auspicio per l’inizio di un nuovo corso politico. Ricordiamoci bene però che Aldo Moro, pur essendo un atlantista convinto, non si fece mai tentare dall’americanismo di (brutta) maniera, ma, anzi, forse pagò a caro prezzo la sua autonomia di pensiero e di azione. Veda Conte di assomigliare a Moro non solo per il gustoso diversivo consumistico, ma per la lungimirante ed equilibrata azione politica.