La rana e il popolo bue

Un tempo gli andamenti politici americani prefiguravano le novità italiane, poi con l’avvento di Berlusconi il processo si è invertito e infatti la discesa in politica dell’uomo di Arcore ha anticipato di oltre un ventennio la deriva affaristica e populistica di Donald Trump. Non so dire se Trump sia un Berlusconi all’americana o Berlusconi sia stato un Trump all’italiana, fatto sta che la storia politica, da un certo momento in poi, ci ha visto vivere di esportazione più che di importazione.  Comunque una triste bilancia commerciale in cui c’è tutto da perdere.

Non so quindi se la bagarre esistente all’interno del partito democratico Usa abbia collegamenti profetici o conseguenziali rispetto alla confusione regnante nel partito democratico italiano. La giornalista inviata de la Repubblica, Anna Lombardi, la racconta così: “Una discussione vivacissima: specchio di un partito sempre più diviso, fra chi insegue il centro moderato e indeciso e chi le idee forti della nuova sinistra socialista”. Fin qui niente di nuovo: la storica diaspora della sinistra fra massimalisti e riformisti, che si sposta dall’ideologia ai problemi concreti, vale a dire al welfare, all’immigrazione, ai cambiamenti climatici, al sistema delle banche e di Wall Street.

Lasciando perdere le esasperazioni personalistiche in vista delle elezioni primarie Usa, resta la tradizionale contrapposizione fra moderati e progressisti. L’assistenza sanitaria gratuita per tutti è irrealistica o doverosa? Per affrontare l’immigrazione occorre rafforzare i confini territoriali e valoriali o questa opzione è da considerare frutto di crudeltà e incompetenza? In merito ai cambiamenti climatici bisogna prendere il toro per le corna e non avere paura delle grandi idee oppure barcamenarsi fra interessi alti e compromessi bassi? In campo economico occorre restare rigorosamente ancorati al sistema capitalistico o è permesso mettere in discussione la finanziarizzazione dell’economia?

Sullo sfondo aleggia il fantasma trumpiano anche perché il dibattito avviene fra gli aspiranti sfidanti del tycoon nell’ormai prossimo 2020. Quindi, l’opposizione a Trump va presa di petto combattendolo sul suo stesso terreno o è meglio cambiare totalmente campo e volare alto? Tutti nodi strategici e tattici con cui si misura anche il Partito democratico italiano. Ci sono tante analogie in mezzo a qualche rilevante differenza.  Mentre i democratici americani vengono da una lunga storia e da una gestazione prolungata e continuata, quelli italiani vengono da una nascita affrettata e dalla complessata necessità di contrapporre una forza unitaria al centro-destra berlusconiano. Sennonché il centro destra ha cambiato pelle e uomini, lo scenario ha visto entrare sul palcoscenico l’anti-politica e la sinistra è rimasta con un palmo di naso alle prese con i suoi dubbi esistenziali e strategici.

Una seconda differenza riguarda la società: mentre negli Usa, nonostante la deleteria cura trumpiana, esiste un assetto sociale fluido, ma almeno attento ai propri interessi e portato a dividersi su tematiche ideali e concrete, in Italia permane una società chiusa in se stessa e incapace di uscire dalle proprie paure. Come spiegare infatti il ridondante influsso salviniano se non con l’assoluta mancanza di capacità critica.

Ci sono anche i numeri a fare la differenza. Negli Usa Trump non ha vinto le elezioni, è stato proiettato alla Casa Bianca da un sistema elettorale che consente di vincere con oltre due milioni di voti in meno rispetto allo sconfitto. Roba da matti! Questa anomalia, che permane a livello di sistema elettorale, probabilmente esploderà territorialmente e socialmente alle prossime consultazioni e non credo potrà ripetersi. In Italia nessuno ha vinto le ultime elezioni, c’è solo un vincitore in pectore che le sta vincendo senza averle vinte, che si sta gonfiando come la rana della favola e potrebbe fare la sua stessa fine, anche se manca il bue di riferimento, anzi di bue c’è solo il popolo.