Abramo Grillo e Isacco Di Maio

Durante una insignificante e insipida conferenza stampa tenuta, nei giorni della crisi di governo, dai capi-gruppo parlamentari pentastellati, è uscita una frase, tra il minaccioso e il ridicolo, volta a recuperare credibilità e autorevolezza: «Chi tocca il leader del nostro movimento, tocca tutto il movimento…». Excusatio non petita per gli innumerevoli episodi, passati e presenti, di gravi divergenze tra le fila grilline: il M5S sarebbe un monolite, anche se in molti si sono accorti del contrario. Endorsement interno per Luigi Di Maio, obiettivamente indebolito dalle vicende crisaiole e dalla evidente sua mancanza di carisma e di autorevolezza: se ne è accorto anche Matteo Salvini che gli ha lanciato una tardiva e irricevibile scialuppa di salvataggio, offrendogli il premierato in una eventuale riedizione immediata del patto giallo-verde.

Che il movimento cinque stelle sia diviso e sfilacciato è cosa evidente e, per certi versi, inevitabile: non può essere unito un movimento senza storia, senza ideologia, senza identità, senza ispirazione. L’unico collante è costituito dall’antipolitica e dall’antisistema, ideati dall’estro di Beppe Grillo e supportati dalla strategia digitalizzata, applicando il fenomeno del web al movimento stesso, messa in moto dalla “Casaleggio e associati”.

Man mano che i grillini si inseriscono nel sistema e sono costretti a fare politica, la loro velleitaria spinta propulsiva si scioglie come neve al sole: è successo nei comuni dove hanno conquistato le tanto odiate poltrone di sindaco, è successo a maggior ragione a livello nazionale dove hanno messo in piedi un’autentica farsa governativa assieme alla Lega di Salvini (così diversi, così uguali). Beppe Grillo lo ha capito da tempo e cerca di tenere viva l’eco dei vaffa senza disturbare i propri manovratori: impresa ardua. In questa morsa socio-politica è rimasto schiacciato l’esponente più esposto: Luigi Di Maio, per il quale sarà una gara dura trovare almeno uno strapuntino nel governo giallo-rosso. Non è un gran male per l’Italia, è un brutto colpo per i pentastellati alla disperata ricerca di una verginità perduta, di uno slancio compromesso e di un consenso calante.

Da una parte hanno dovuto recuperare e adottare l’aplomb di Giuseppe Conte, promuovendolo sul campo leader istituzionale, dall’altra sono costretti a nascondersi dietro il dito della piattaforma Rousseau, mentre il Di Maio bifronte ha scarse possibilità di sopravvivenza politica nonostante le difese d’ufficio. Il loro elettorato è liquido e quindi si sperde nei rigagnoli verso destra o verso sinistra a seconda dei momenti e dei territori. Continuano a inveire contro le poltrone su cui dovranno comunque sedersi e ad enfatizzare programmi onnicomprensivi e confusi volti a drizzare le gambe ai cani. Non hanno avuto il coraggio di tornare alle urne preoccupati da un vistoso calo di consensi, non hanno la freddezza e la spregiudicatezza di trasformarsi in una forza di governo vera e propria, capace di riformare il sistema dal di dentro. Sono allo sbando!

Che Luigi Di Maio faccia o meno il vice-premier oppure il ministro dell’Interno o della Difesa ha poca importanza: era un non leader a cui non ubbidire, adesso è un ingombrante arnese di cui liberarsi senza dare troppo nell’occhio, una vittima illustre (?) da sacrificare sull’altare pentastellato. Ci rimane Giuseppe Conte, che di grillino ha poco o niente e che dal vaffanculo passerà al vaffanbagno di realismo politico. E i Fico, i Di Battista, i Toninelli, i Patuanelli, etc? Ai posteri l’ardua sentenza, che riguarderà peraltro solo Beppe Grillo. Il resto mancia.