La fotosintesi zingarettiana

La mia ormai lontana esperienza politica è legata al correntismo democristiano: aderivo convintamente e burrascosamente al gruppo della sinistra di Forze Nuove, che esprimeva una forte attenzione alle problematiche sociali. Avevo il coraggio, e forse un po’ l’illusione, di fare la sinistra all’interno di un partito che non era di destra, ma nemmeno di sinistra. Non voglio ripercorrere queste mie scelte e tanto meno valutarne storicamente i risultati, ma soltanto chiarire che quel correntismo, pur nell’inevitabile acqua sporca della spartizione del potere, aveva e salvava il bambino di un forte richiamo ideale e valoriale.

Per certi versi il partito democratico assomiglia alla Democrazia Cristiana, anche per la frammentazione e la divisione interna: mentre per la DC il pluralismo era una ricchezza di ispirazione che si trasformava in una variegata raccolta di consenso, per il PD la conflittualità interna, giocata tutta sulle nostalgie del passato, sulle tattiche del presente e sulle miopie per il futuro, comporta incertezza programmatica, paralisi politica e disamore elettorale.

La segreteria di Nicola Zingaretti parte male in quanto non riesce ad unificare il partito, ma offre lo spunto e lo sfogo per vecchie e nuove rivalità correntizie. Da una parte si intravede la storica contrapposizione, il pallido ma resistente massimalismo di una sinistra abbarbicata al suo ideologismo datato e oscillante fra la demagogia sociale e la burocrazia strutturale; dall’altra parte la smania post-ideologica di includere tutto e tutti in una versione annacquata e improvvisata di sinistra. Su questa radicale differenza si innestano gli opportunismi, gli equilibrismi ed i personalismi.  In un certo senso il PD ha tutti i difetti del Pci e della Dc, di cui è figlio, senza averne i pregi.

Alla forte e interessante accelerata innovativa renziana, caduta nel vuoto dei legami territoriali e nel pieno di una leadership esagerata ed invadente scantonante nel familismo e nel nepotismo, succede una frenata camuffata da ritrovata (?) voglia di legami storici con la sinistra ed il suo popolo. Questa equivoca oscillazione può immediatamente suscitare curiosità, ma rischia di provocare confusione, irritazione e divisione. Che i cosiddetti renziani stiano fuori dalla segreteria non è un dramma; il problema sta nel fatto che non si capisce dove vogliono parare gli uni e gli altri. Avrebbero “la fortuna” di poter risolvere i conflitti interni nell’opposizione ad un governo assurdo e inconcludente, ma anche su questo piano fanno fatica ad affondare unitariamente i colpi. Non basta comunque combattere il grillismo e il leghismo per giustificare una forza politica moderna e progressista.

Ci hanno provato in molti a escogitare una “cosa” di sinistra adeguata ai tempi: dalla rifondazione blairiana-clintoniana di Massimo D’Alema alla saldatura teorico-pratica di Romano Prodi; dal maanchismo di Walter Veltroni al comunismo all’emiliana di Pier Luigi Bersani; dal nuovismo di Matteo Renzi alla fotosintesi zingarettiana; dalla calda alleanza dell’ulivo alla fusione fredda del Pd; dai patti di desistenza agli accordi plurali. Come se ne esce? Con troppe voci stonate in libera uscita e con una caserma riveduta e scorretta? Sarà veramente impossibile trovare una casa comune dove discutere per poi vivere dignitosamente e proficuamente?