Chiuso per troppa sofferenza

Il suicidio assistito della 17 enne olandese che ha scelto di mettere fine alla propria vita con il suicidio assistito ci mette tutti di fronte alle nostre enormi responsabilità. La storia di questa ragazza è sconvolgente: vittima di reiterati stupri, di stress post traumatico, anoressia, attacchi di panico.  Un autentico calvario senza fine.

Il Papa ha scritto: «L’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza».  Parole ineccepibili da tutti i punti di vista, che ci spronano a non rassegnarci di fronte alla sofferenza e a reagire ad essa con la condivisione e la solidarietà. Papa Francesco fa un grosso passo avanti, abbandonando il comodo e tradizionale dogmatismo religioso e scendendo sulla concretezza dell’aiuto reciproco. Passa cioè dal dire al fare, dalla condanna alla mano tesa, dall’atteggiamento del maestro a quello del testimone. In questo senso mi senso toccato nel mio egoismo e provocato nella mia indifferenza. E di ciò lo ringrazio e cercherò di fare tesoro del suo forte e carismatico invito.

Sono perfettamente d’accordo che, come singoli e come comunità, non facciamo tutto il possibile per alleviare le sofferenze di chi si trova a vivere, per tanti motivi, in una situazione disperata. Preferiamo trincerarci dietro battaglie di principio, di carattere proibizionista o permissivo, assumere atteggiamenti manichei, di rigida e radicale contrapposizione sul piano ideologico o della prassi.

C’è tuttavia anche l’umiltà di ammettere che a volte il peso può diventare insostenibile, che la solidarietà può diventare accettazione della volontà di un nostro simile che non riesce più a continuare dignitosamente il suo cammino, che le forze umane, anche messe in comune, non riescono a reggere certe situazioni, che la morte può diventare una liberazione e una, l’unica, soluzione umanamente accettabile. Siamo fatti per vivere e dobbiamo sforzarci di farlo, ma quando ci accorgiamo che la vita non ha più senso, dobbiamo avere il coraggio di accettare la morte come la continuazione della vita.

Leggendo la vicenda umana di questa giovane donna non mi sento in coscienza di eccepire nulla riguardo alla sua decisione e credo che nessuna solidarietà umana potesse riscattarla dalla disperazione di una sofferenza senza limiti. Immagino il cammino che l’ha portata al suicidio e ne resto sgomento. Forse è meglio tacere di fronte a tanto dolore per poi interrogarsi su quanto ognuno possa fare concretamente per prevenire ed accompagnare queste vicende. Qualcuno in passato osava sostenere che il suicidio sia un atto di vigliaccheria. Ma cosa sappiamo noi di quanto passa nell’animo di un fratello o di una sorella disperati? Nemmeno il Papa lo sa o lo può immaginare. Solo Dio e proprio per questo accoglierà a braccia aperte il figlio e la figlia che, in assoluta buona fede, decideranno di chiudere la vicenda terrena.

Queste vicende drammatiche e tragiche sono la clamorosa dimostrazione del nostro egoismo quando non siamo capaci di portare i pesi gli uni degli altri, ma anche della limitatezza delle nostre forze, possibilità e capacità quando non riusciamo a saltarci fuori. Umanamente e cristianamente assumo coscienziosamente questo atteggiamento, che non può risolvere niente, ma che mi chiede il massimo di responsabilità e di comprensione.  Di fronte alla morte di persone devastate dal dolore si afferma: ha finito di soffrire. Lo dico con tanta partecipazione e con tutta la sensibilità di cui sono capace anche per Noa Pothoven, nella certezza che il futuro le potrà riservare non solo la fine della sofferenza, ma tanta gioia.