La sana iconoclastia calcistica

Di Padre Eterno ne riconosco solo uno, figuriamoci se sono disposto ad ammetterne altri, seppure in chiave sportiva. Tempi duri per le divinità pallonare: i Messi, i Ronaldo, gli Icardi cadono dagli altari alla polvere con eloquente velocità. Il trono di Messi è durato meno di una settimana: dal paradiso di Barcellona all’inferno di Liverpool.

Il loggione di Parma in passato ogni tanto ruggiva: il famoso e simpatico critico Rodolfo Celletti ammetteva di godere, sotto sotto, allorquando i parmigiani spazzolavano qualche mostro sacro del bel canto. Però aggiungeva: «Ho la sensazione che a voi parmigiani piacciano un po’ troppo gli acuti sparati alla viva il parroco…». I loggionisti degli stadi, aizzati dagli opportunisti mediatici dello sport, si lasciano troppo incantare dai cosiddetti fuoriclasse del football, non capendo che il calcio è il più bel gioco del mondo e come tale è imprevedibile e impossibile da incapsulare negli schemi tattici.

All’inizio del campionato 2018-2019 sembrava che Carlo Ancelotti, il nuovo allenatore del Napoli, fosse in grado di “far venire il vino nell’uva”, come dice una simpatica espressione dialettale parmigiana: lui sì che era bravo, non il suo predecessore (Maurizio Sarri). Ebbene la campagna ancelottiana sta finendo tra i fischi per gli scarsi risultati ottenuti nelle competizioni italiane ed europee. Tutti i commentatori lo osannavano e oggi? Colpa delle scelte societarie! Ma fatemi il piacere. Attenti, perché potrebbe succedere così anche a Roberto Mancini, il nuovo tecnico della nazionale: tutti lo incensano a priori, poi…staremo a vedere.

Torno ai padreterni con cui ho iniziato il discorso, in particolare all’argentino Lionel Messi.  Mio padre pretendeva molto dai grandi campioni superpagati, arrivava alla paradossale esigenza del goal ad ogni tiro in porta per un fuoriclasse come Zico (col da la ghirlanda) incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Ma non solo con Zico, anche con altri giocatori superpagati: mio padre non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato. Cosa direbbe oggi di Messi e Ronaldo: sogghignerebbe soddisfatto del loro ridimensionamento, nonostante la testarda e inguaribile vena giornalistica osannante.

Sarò un inguaribile bastian contrario, ma di fronte al capitombolo barcellonese e alle recenti sfide di coppa campioni ho goduto assai. Perché? Innanzitutto perché questi episodi di ribaltamento rimettono il calcio al suo posto: uno stupendo, imprevedibile, fantasioso gioco di squadra in cui si può vincere e si può perdere, combattendo fino all’ultimo respiro, punto e stop. In secondo luogo, in men che non si dica, crollano i facili e sciocchi divismi e speriamo si ridimensionino anche i relativi cachet. Inoltre perdono di credibilità i prezzolati mestieranti, che vivono sulle stucchevoli chiacchiere del prima e dopo partita. Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.