Fare il prete a Manduria

In una delle tante trasmissioni che si accaniscono sui fatti di cronaca più eclatanti e sconvolgenti, allestendo con insistenza macabri salotti, ho potuto ascoltare – in merito alla incredibile vicenda del pensionato di Manduria  letteralmente massacrato dalla violenza di una baby gang e dall’omertà dell’intera comunità – la testimonianza, raccolta sul posto, del sacerdote che svolge la sua attività pastorale in quel luogo (non ho capito bene se si trattasse del parroco territorialmente competente o comunque di un prete inserito in quel contesto).

Mi ha spiacevolmente sorpreso la sua troppo prudente e quasi distaccata analisi, preoccupata di salvare l’insalvabile, vale a dire – stando ai drammatici fatti che stanno sempre più assumendo il carattere di una denuncia civica – una comunità fantasma, chiusa nel suo castello omertoso, totalmente incapace non solo di solidarizzare, ma persino di guardare la realtà circostante. Mi sarei aspettato un onesto e doveroso mea culpa, mentre invece emergeva una opportunistica sdrammatizzazione dell’accaduto e una teorizzazione problematica del contesto socio-culturale in cui è avvenuto il fatto.

Spero che tutta Manduria non sia cestinabile nel cassonetto dei rifiuti emergente dalla cronaca, credo anch’io senza dubbio che la realtà sia complessa e difficile da analizzare, ma non si può sfuggire alla realtà di un fatto gravissimo che deve turbare tutte le rette coscienze.   La comunità cristiana di Manduria non può rifugiarsi nei luoghi comuni della crisi famigliare e dello sfacelo valoriale, ma si deve assumere le proprie responsabilità.

IL buon samaritano, quando ha incontrato quel poveretto massacrato dai briganti, non se la è presa con la società, ma si è rimboccato le maniche ed ha operato come tutti sappiamo. I cristiani devono fare così e i loro pastori devono snidarli senza troppo preoccuparsi di “sputtanarli”. Non è ammissibile che nella comunità cristiana di Manduria nessuno abbia trovato il coraggio di intervenire se non direttamente, almeno indirettamente. I casi sono due: o la comunità e i cristiani che ne dovrebbero fare parte non esistono e si confondono in mezzo al mondo di paura, indifferenza ed egoismo imperante, oppure non hanno capito nulla del Vangelo e pensano di cavarsela nascondendosi fuori dal mondo. I sacerdoti di Manduria conoscevano l’inferno in cui viveva quel povero figlio di Dio? Se sì, dovevano fare qualcosa: almeno parlarne con la gente, con le autorità, con il vescovo, con il papa, con chi poteva interessarsi di quel soggetto in gravissime difficoltà. Se no, dove e come svolgevano la loro missione? Se la comunità cristiana e i suoi pastori non sanno essere quel pugno di lievito che fa fermentare la massa amorfa in cui vivono, sarà bene che si interroghino profondamente e cerchino di darsi una benefica scrollata.

Anche in quel salotto televisivo tutti si aspettavano qualcosa di forte dall’esperienza umana e cristiana di quel prete, che invece continuava a chiedere di poter parlare per non dire niente di toccante e importante e invitava tutti a capire, a vivere le situazioni, a toccare con mano. Certo, bisogna stare in mezzo alla gente e condividerne i problemi. E non è facile! Ma lui come ha vissuto questa vicenda? come ne è uscito? cosa può testimoniare? Per favore, se ha qualcosa nel cuore, lo “sputi” senza pietà.

Ho avuto il dono grande dell’amicizia con sacerdoti capaci di calarsi nella realtà dei poveri e degli oppressi. Forse è per questo che mi sono un tantino scandalizzato. Magari quel prete sarà impegnatissimo nella sua testimonianza, magari non è riuscito a rendere l’dea del dramma cristiano che vive ogni giorno. Il mio non vuole essere un giudizio: chi sono io per giudicare un prete di Manduria? Resta il fatto che oggettivamente si è constatata l’esistenza di un buco nero di indifferenza, che va coperto al più presto. Poi si può discutere, dissertare, analizzare.