Morire di custodia cautelare

Il comandante dei Carabinieri, il generale Giovanni Nistri, si è rivolto a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, un giovane morto a Roma il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare, dopo essere stato fermato dai carabinieri in quanto era stato visto cedere delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota, perquisito e trovato in possesso di confezioni di hashish (21 grammi), cocaina (tre dosi) e di un medicinale per curare l’epilessia, malattia da cui era affetto. Le ha scritto: «Abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà. Abbiamo la vostra stessa impazienza perché il vostro lutto ci addolora da persone, cittadini, nel mio caso, mi consenta di aggiungere: da padre. Comprendiamo l’urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno».

Se queste parole fossero state scritte dopo pochi giorni dal fatto, sarebbero state perfette, oggi, a distanza di quasi dieci anni, suonano quasi come una beffa. Meglio tardi che mai… Sì, ma al tardi c’è un limite e, nel caso in questione, tale limite è stato ampiamente superato in termini temporali e soprattutto a causa di coperture, depistaggi, contraddizioni e perdite di tempo. Al comprensibile imbarazzo dei superiori doveva fare seguito una loro leale ammissione di responsabilità oggettiva assieme alla disponibilità a ricercare la verità e ad individuare e colpire le responsabilità soggettive. Invece…

Il caso ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica anche a seguito della pubblicazione delle foto dell’autopsia, talmente eloquenti da suonare come una precisa denuncia di maltrattamenti a cui Stefano Cucchi è stato sottoposto alla faccia di tutte le perizie mediche che si sono succedute. Mio padre, quando non si riusciva a trovare una spiegazione plausibile per una morte violenta, mentre le indagini giravano a vuoto e la giustizia pestava l’acqua nel mortaio, era solito sentenziare amaramente: “As veda ch’lè mort parchè i g’an preghé un colp!”. Probabilmente lo avrebbe ripetuto per il caso di Stefano Cucchi, sulla cui morte la verità non è venuta a galla dopo ben dieci anni in una interminabile bagarre di cause giudiziarie.  Tutti hanno capito che non si volevano scoprire certi comportamenti connessi all’arresto e alla detenzione del giovane, cui ha fatto seguito un balletto di ricoveri e di referti ospedalieri: al termine di questa autentica via crucis, Stefano muore. Qualcuno ha il cattivo gusto, oltre che l’impudenza, di ipotizzare la morte per anoressia e tossicodipendenza, mentre la famiglia pubblica alcune foto del giovane scattate in obitorio, nelle quali sono ben visibili vari traumi contusivi (volto tumefatto, un occhio rientrato, la mascella fratturata e la dentatura rovinata) e un evidente stato di denutrizione.

Questo ragazzo ha subito un vero e proprio pestaggio e nessuno si è preoccupato di constatarlo e di curarlo. Può darsi abbia avuto reazioni violente all’arresto, ma i tutori dell’ordine devono avere i nervi a posto e, per nessun motivo al mondo, possono lasciarsi andare a reazioni tali da compromettere la vita dell’arrestato sottoposto alla loro custodia. Carabinieri, polizia penitenziaria, medici dell’ospedale militare: una girandola di accuse finite in una vergognosa pantomima. Forse quanto è successo non si saprà mai fino in fondo. Le indagini, le inchieste, i processi fino ad oggi non hanno cavato un ragno dal buco. Sul più bello (sic) l’arma dei carabinieri viene presa da una sorta di rimorso di coscienza ed esprime il desiderio che venga fatta piena luce anche e soprattutto sugli appartenenti all’arma stessa coinvolti nella vicenda. Ho riletto per sommi capi la cronistoria processuale: mi spiace molto, ma mi sento onestamente offeso, perché si capisce fin troppo bene come tutta la vicenda sia sovrastata dalla cattiva volontà di insabbiare un episodio inquietante e sconvolgente.

Ilaria Cucchi, la sorella meritoriamente impegnata a chiedere giustizia per il fratello, ha reagito in modo esemplare alla lettera ricevuta dal generale Nistri e sopra riportata: «È stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi ed essa è tornata a scaldarmi il cuore, a scacciare il senso di abbandono che ho vissuto in questi nove anni. Oggi finalmente posso dire che l’Arma è con me. Come scrive Nistri, mio fratello è morto, ma ad essere lesa, insieme alla sua vita e a quella della mia famiglia, è stata anche l’Arma e i suoi centomila uomini cui la lettera fa riferimento». Una lezione di educazione civica! Grazie Ilaria!