Menare il can per l’Arcadia

Come noto, si dice che non fa notizia un cane che morde un uomo, ma un uomo che morde un cane. In questi giorni possiamo dire che fa notizia un uomo che perdona un cane. Andiamo con ordine. Due anni fa a Mascalucia, un paese in provincia di Catania, un bambino di 18 mesi è stato improvvisamente aggredito da due cani di proprietà della famiglia, due esemplari di dogo argentino; il bambino, azzannato alla gola da Asia (uno dei due cani di sui sopra), era rimasto ucciso sotto gli occhi della madre, anch’essa ferita nel tentativo di difendere il figlio. Ebbene, quei due cani hanno continuato a vivere e hanno potuto fare un percorso riabilitativo presso l’Associazione Arcadia di Rovereto che si occupa di interventi assistiti con animali: tutto al fine di un loro reinserimento sociale, sfociato, per Asia, nell’adozione presso una famiglia disponibile ad accoglierla previa verifica su affidabilità e sicurezza.

Il presidente di Arcadia considera molto positivamente l’affidamento di questo animale recuperato: «Si dà una seconda opportunità a tutti gli esseri viventi. Questo è un successo non solo dell’associazione, ma della collettività, che si deve sentire tutelata e assistita perché solo in questo modo può essere rispettato il diritto alla vita e alla libertà che troppo spesso viene leso e tolto per superficialità e mancanza di competenza».

Non ho mai avuto eccessiva simpatia per gli animali anche se li ho sempre rispettati. Di fronte a certi inquietanti episodi di aggressione canina non ho mai colpevolizzato i cani, che in fin dei conti seguono il loro naturale istinto, ma i padroni che non sono capaci di far sentire la loro voce. Mi sono detto più volte: “Non ucciderei i cani, ma i loro proprietari che non li addestrano, non li controllano e non li sanno gestire”. Niente da obiettare quindi se si tenta di recuperare un cane protagonista di fatti incresciosi, purché il percorso sia una cosa seria e il reinserimento avvenga con tutte le garanzie e le cautele del caso. Su questo mi permetto di nutrire qualche serio dubbio: come si fa a rieducare, garantendo ad un tempo il benessere degli animali e la sicurezza pubblica? Non sarà per caso la volontà faticosa e inutile di voler drizzare le gambe ai cani? Mi sembra che quanti abitano nelle vicinanze della famiglia affidataria abbiano espresso qualche contrarietà, dettata dalla paura che un simile animale possa tornare ad aggredire e magari ad uccidere un altro bambino.

Il discorso di fondo è però un altro e riguarda i pesi e le misure: quanta comprensione per un cane e quanta poca comprensione per un carcerato e quanta poca fiducia nella possibilità di un suo recupero e reinserimento! Quanta cattiveria verso un uomo responsabile di un grave reato: a marcire in una cella dopo averne buttato via le chiavi! Nessuno ha tanto spirito vendicativo verso un cane ed il suo distratto padrone. Per fortuna quanto all’affidamento non si dovrà fare molta differenza tra coppie etero e omo sessuali: vanno tutte bene purché li sappiano tenere al guinzaglio. Magari questo sarà considerato un atto irriguardoso verso i cani… Si dice che chi non ama gli animali non sappia amare nemmeno gli uomini: preferisco partire dall’amore all’interno del genere umano, poi semmai vengono gli animali.

Mio padre aveva rispetto per gli animali anche se li teneva a debita distanza. Aveva un conto aperto con i cinofili: li riteneva troppo tolleranti. Quando vedeva una persona tanto premurosa e accondiscendente verso il proprio cane non poteva tacere ed esprimeva un certo sano scetticismo: «Aj can i gh läson fär tutt col ch’j n’an vója, a un ragas par molt meno i gh’ dan un s’ciafón…». Oppure, in campo economico, vedendo le cure e le attenzioni riservate a cani e gatti, così sferzava le lamentazioni: «Po’, chi n’en venon miga a dìr cla gh va mäl…».

In materia raccontava due episodi accadutigli. Stava lavorando nell’appartamento di una signora che aveva un cagnolino all’apparenza innocuo. La bestiola approfittando di un attimo di disattenzione di mio padre, intento a dipingere uno zoccoletto, gli si avvicinò quatto quatto e gli diede “’na bocäda in-t-un garlètt”. La padrona di casa venutolo a sapere cominciò la solita menata: «Ma come mai, il mio cane è così buono?». «Al sarà bón, mo al m’à dè ‘na bocäda!». «Secondo me, disse assurdamente quella anziana signora, lei gli avrà fatto un dispetto, magari tempo fa, in stradone dove lo porto spesso…». Mio padre, a quel punto, chiuse il discorso che si stava facendo surreale.  “Adésa a v’ mètt a pòst mi”, pensò fra sé. Ogni volta che quel bel cagnolino osava avvicinarsi gli appioppava un colpetto in testa con il manico del pennello e naturalmente il cane si allontanava abbaiando. La padrona chiedeva: «Ma cosa c’è insomma tra lei e il mio cane?». «Njént siòra, col so can am son spieghè sénsa bizògn d’andär in stradón…». E senza bisogno di percorso di recupero, o meglio con uno sbrigativo percorso preventivo da preferire a quello eventualmente successivo ad un fatto grave ed irrimediabile.

Un’altra volta mentre stava arrivando al lavoro in un casolare di campagna, gli corse incontro un grosso cane. Ebbe la freddezza di stare fermo, il cane gli abbaiò intorno fintantoché arrivò il padrone, che da lontano aveva assistito alla scena. «Meno male che lei è stato fermo, perché se reagiva o scappava, chissà cosa sarebbe successo…». Mio padre, ripresosi dallo spavento, chiese al padrone: «A portol anca lu al so can a fär un gir in stradón? Parchè acsí am so regolär e in stradón a ne gh mètt pù pè». Incidente chiuso.