Il diavolo in riva al Po

«L’ho ucciso perché aveva un’aria felice. L’ho scelto perché appariva felice». Il 27enne italiano di origine marocchina, Said Machaouat, ha confessato di aver ucciso con questa incredibile motivazione il giovane Stefano Leo a Torino, in riva al Po. «Un movente banale quanto terrificante» ha dichiarato il procuratore di Torino Paolo Borgna.

Il giorno del delitto il 27enne ha maturato la volontà di uccidere qualcuno: per questo motivo ha comprato un set di coltelli e li ha gettati tutti tranne uno, quello che poi ha usato contro Leo. «Volevo uccidere un ragazzo come me, sottrarlo alla sua famiglia e togliergli tutte le promesse di felicità». La decisione di costituirsi è maturata dopo un mese di fuga e dopo aver sentito nuovamente un impulso all’omicidio. «Avevo una voce dentro di me che mi diceva di uccidere ancora. Così mi sono costituito».

Quando l’omicidio non trova giustificazioni plausibili è un fatto ancor più drammatico e sconvolgente. Non sono uno psicologo né un criminologo né un neuropsichiatra. Cerco di ragionare sull’irragionevole. Ammesso e non concesso che non esistano ulteriori elementi alla base di questo fatto di sangue, prendendo quindi per buona la ricostruzione psicologica ed organizzativa del reo confesso, riesco a collocare questo evento nel perimetro esistente tra scienza e religione, fra l’inspiegabile ed estrema follia omicida ed il vero e proprio intervento demoniaco.

“Chi schiva ‘n mat fa ‘na bón’na giornäda oppure “s’al n’ é ’l diävol, l’è só fiôl”. Non posso che rifarmi alla saggezza popolare perché credo sia l’unica via d’uscita. Presumo si scatenino le scienze inesatte: preferisco inorridire restando coi piedi per terra o, meglio, tentando una spiegazione “banale” e inquietante ad un tempo.

Mia madre, così come era rigorosa ed implacabile con gli anziani era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”. Probabilmente sarebbero entrambi spiazzati di fronte ad un simile fatto di sangue. Lo sono anch’io. Provo un grande senso di pietà per la vittima e per il carnefice.

“Avevo una voce dentro che mi diceva di uccidere ancora”: è questa la frase che mi fa pensare all’indemoniato, anche se non sono portato a leggere la realtà di fede in chiave anti-diabolica. Però… nel vuoto assoluto valoriale e ideale un giovane può rischiare di essere posseduto dal demonio ed essere sopraffatto da vampate maligne di ribellione estrema contro chi simboleggia le regole di vita e magari osa involontariamente ricordargliele.

Ho più volte citato un episodio. Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».