Dalle cravatte morotee alle farfalle dimaiane

Il 18 febbraio 1972 ci fu la dura protesta di Carlo Donat Cattin contro la formazione del primo governo Andreotti, un monocolore Dc che poneva fine all’alleanza di centro sinistra e riapriva alla collaborazione con il Partito Liberale. Confermato nel suo incarico di governo, egli si recò dal barbiere anziché salire al Quirinale per il giuramento. Il fatto ebbe una grande risonanza mediatica. Donat-Cattin era reduce da una riunione avuta con gli amici di Forze nuove che lo avevano invitato a non rinunciare all’incarico di ministro del Lavoro. Egli chiese perciò ad Andreotti una dichiarazione che riconoscesse la funzione delle sinistre democristiane, per attenuare l’eccessiva caratterizzazione a destra del governo. Il testo di quella dichiarazione fu scritto a quattro mani da Donat-Cattin e Franco Evangelisti, sottosegretario plenipotenziario di Andreotti. Le cronache del tempo ricordano che su Donat-Cattin esercitarono non poche pressioni anche Moro, Forlani e De Mita. Dopo il pronunciamento di Andreotti vi fu l’annuncio che il mattino successivo Donat-Cattin avrebbe regolarmente giurato nelle mani del presidente Leone.

Durante i burrascosi lavori del Consiglio nazionale della DC che nel 1975 sostituì Amintore Fanfani alla segreteria con Benigno Zaccagnini, in piena bagarre Aldo Moro ebbe la geniale idea di assentarsi momentaneamente dal consesso surriscaldato per recarsi in via Condotti a comprare una cravatta. Con quella mossa riuscì a stemperare il clima e a completare un autentico capolavoro politico, sfiduciando Fanfani ma ricuperandolo nella nomina di Zaccagnini, il quale restituì credibilità popolare alla DC, iniziando un nuovo corso fatto di dialogo e di apertura a sinistra (Il male c’è, ma Benigno…, si diceva e si scriveva allora).

La sera del 23 aprile 2019 Matteo Salvini arriva a palazzo Chigi attorno alle 19.30 e la mette subito giù dura: il Salva-Roma non si fa, è rinviato. “Misura concordata con Di Maio?”, gli chiedono i cronisti: «Lo stralcio lo concordo con chi c’è. Con gli assenti è difficile concordare» risponde il vicepremier. Negli stessi istanti infatti Luigi Di Maio diserta i lavori del consiglio dei ministri, sta registrando un’intervista per «La 7» ed arriva a palazzo Chigi con mezz’ora abbondante di ritardo sull’avvio dei lavori, inizialmente convocati per le 18, poi slittati alle 19 ed infine iniziati solo alle 20. I suoi però si affrettano a far sapere che «per stralciare il Salva-Roma è necessario un voto del Consiglio dei ministri, che al momento non c’è ancora stato». Sia Salvini che Di Maio, in un botta e risposta a distanza, evocano la crisi di governo per poi negarla. Si litiga fuori e dentro il Cdm.

Donat Cattin va dal barbiere, Moro va a comprare una cravatta, Di Maio va a farsi intervistare in televisione: tutti tre compiono un gesto politicamente scorretto, molto eclatante sul piano istituzionale quello dell’allora ministro democristiano, molto umano e simpatico nel suo sgarbo partitico e correntizio quello di Moro, assai provocatorio quello del vicepremier che vuole così marcare la distanza dalla Lega di Salvini con cui sta vivendo un infinito contenzioso. Si potrebbe pensare che tutto rientri nelle strane ritualità della politica e forse è anche così.

C’è però una differenza colossale fra i tre episodi. Nel primo era in gioco una importante scelta di schieramento per la DC: fine del centro-sinistra e ripresa di collaborazione col partito liberale; nel secondo  si trattava di individuare una guida autorevole per il partito democristiano insidiato elettoralmente dai successi del Pci di Enrico Berlinguer; nel terzo scendiamo di livello e ci portiamo nella rissa personale fra due presunti leader, che difendono solo ed esclusivamente i loro adepti in disgrazia giudiziaria (leggi Siri e Raggi), all’interno di una gara celoduristica in vista delle elezioni europee.

A proposito di celodurismo di bossiana memoria, in questi giorni al senatur fischieranno le orecchie: il suo impavido successore ritorna sulle posizioni di “Roma-ladrona”, mentre il grillino vuole mostrare il suo “grillone” facendo il bullo in uno squallido andirivieni da palazzo Chigi.

Sarò un nostalgico, ma se questo è lo stile della seconda (quella di Bossi) o terza repubblica (quella di Salvini e Di Maio), come dir si voglia, mi prende un grande sconforto: la politica ridotta a rissa di cortile, dove i litigi servono solo a segnare il territorio, come fanno i gatti. Sento la puzza e mi viene quasi il vomito, vado su internet per rileggere la storia della prima repubblica e, manco a dirlo, mi si rimette a posto lo stomaco.