L’arte fra mito e realtà

In questi giorni, in barba al catechismo cattolico ed a Michelangelo Merisi detto Caravaggio, è stata fissata l’ottava opera di misericordia: “non spostare le opere d’arte”. Da sempre si scontrano due linee di utilizzo culturale dell’arte: un indirizzo puramente contemplativo e aristocratico ed una impostazione aperta, dinamica e popolare. Le “Sette opere di misericordia”, il capolavoro di Caravaggio conservato al Pio Monte della Misericordia a Napoli, non verranno trasferite al Museo nazionale di Capodimonte, dove avrebbero dovuto ricoprire il ruolo di protagoniste nell’ambito della mostra “Caravaggio a Napoli”, in programma dal 12 aprile al 14 luglio prossimi.

Quando sembrava che l’accordo esistesse sono cominciate forti polemiche tra gli addetti ai lavori in merito all’opportunità di spostare il delicato dipinto di appena due chilometri dalla sua sede: sono state accampate ragioni statutarie, si è fatto riferimento a comportamenti storici, si sono avanzate motivazioni di rischio ai quali l’opera verrebbe esposta. È intervenuto a gamba tesa il Ministero dei beni culturali, che ha sancito il no definitivo al prestito a causa dei “rischi ai quali l’opera verrebbe esposta al solo fine di essere trasferita presso un’istituzione culturale che si trova a poco più di due chilometri dalla chiesa nella quale essa è (ben) conservata. Lo spostamento avrebbe sottoposto le “Sette opere di misericordia” ad un rischio inutile e quindi il Ministero ha suggerito al museo d’includere il Pio Monte della Misericordia nel percorso espositivo.

Sembra una questione di lana caprina, ma non lo è affatto al punto che il maestro Riccardo Muti si è sentito in dovere di intervenire su due piani. Dal punto di vista logistico ha detto: «Perché non spostare il quadro di pochi chilometri quando la Pietà di Michelangelo andò a New York?». E poi non si è astenuto dal pensare male per centrare forse il nocciolo della questione: «Non voglio entrare in polemiche politiche, ma è chiaro che questo è un attacco al direttore del Museo di Capodimonte, Bellenger, che ha lavorato così bene in questi anni».

Non posso dimenticare l’opinione del mio carissimo ed indimenticabile amico professor Gian Piero Rubiconi, un mio maestro di cultura, che, tra l’altro, collezionava dischi non per una malcelata bulimia filologica, ma per la sete inestinguibile di ascoltare, di raffrontare, di approfondire, di commuoversi. L’enorme patrimonio di incisioni e registrazioni dal vivo non lo teneva per sé, ma amava comunicarlo, metterlo a disposizione di tutti, soprattutto dei suoi giovani amici appassionati.  I suoi “colleghi” collezionisti lo rimproveravano di essere troppo generoso e di non difendere a dovere il proprio patrimonio discografico, ma soprattutto quello delle preziose ed appetibili registrazioni “pirata”. Qualcuno minacciava di non fare più con lui scambi di materiale, dal momento che tale materiale veniva poi troppo divulgato. Una volta si sfogò e mi disse: «Capirai… se mi metto a fare il custode impenetrabile di nastri su cui sono incisi autentici pezzi di cultura. Se me li chiedono, glieli do volentieri: li ascoltano, discutono, si divertono. La cultura è scambio, esige di essere fatta circolare, non è strettamente riservata ad alcuno…». Da una parte aveva un alto e professionale concetto di arte, di cultura, quasi al limite dell’aristocratico, dall’altra prediligeva il senso popolare della cultura stessa, ne perseguiva la diffusione, amava divulgarla. Sane ed apparenti contraddizioni: competenza, preparazione, alta qualità per gli addetti ai lavori; massima apertura e disponibilità verso il pubblico dei fruitori. Chi non è capace di sintetizzare i due aspetti della cultura si chiude in uno splendido quanto inutile isolamento e cade nello snobismo di chi magari si scandalizza se in piazza Duomo si tiene un concerto. Gian Piero non era certamente uno snob anche se viveva in un ambiente, quello culturale, musicale e teatrale, che ne è zeppo. Ultima e non ultima dimostrazione l’assurdo blocco del piccolo e utile traffico caravaggesco.