La quiete della giustizia e la tempesta della vendetta

La celebrazione della festa della donna ha coinciso giustamente con manifestazioni all’insegna della protesta contro tutte le violenze alle donne, in particolare contro il fenomeno dilagante del femminicidio. Dopo la protesta dovrebbero venire l’azione culturale, politica e sociale per combattere veramente una enorme piaga. Ha fatto impressione la confessione delle violenze subite da una giovane donna a livello di induzione e sfruttamento della prostituzione, fatta al Quirinale durante la opportuna e incisiva cerimonia tenutasi nella giornata dell’08 marzo.

Penso si possa fare molto di più a tutti i livelli in difesa dei diritti e dell’incolumità delle donne. C’è un percorso educativo da battere a livello famigliare, scolastico e da tutte le istituzioni pubbliche e private impegnate in questo campo. C’è un discorso di sensibilizzazione e solidarietà sociale da mettere in atto quotidianamente: dal condominio al quartiere, dal negozio al teatro, dalla strada ai locali pubblici. C’è un’azione di polizia di prevenzione e repressione sulla quale credo si possa operare con maggiore efficacia e tempestività. Sono convinto che, ad esempio, contro la prostituzione di cui sono vittima le giovani donne immigrate e ingannate, un mondo in cui avvengono violenze e crudeltà inimmaginabili, si possa e si debba intervenire con impegno: la polizia sa o può sapere tutto e quindi non occorre la bacchetta magica per colpire i vari racket operanti sul territorio.

Ognuno deve fare la sua parte. Anche la magistratura ha un compito essenziale a livello indagatorio, a livello delle misure restrittive da adottare nei casi emergenti, a livello del giudizio dei responsabili di fatti di violenza ed omicidio. Arrivati sulla soglia dei tribunali bisognerebbe però avere la prudenza e il rispetto per fermare la protesta ed accettare le sentenze della magistratura anche se a volte possono sembrare inadeguate o inopportune. Mi riferisco al caso dell’uomo di 57 anni, reo confesso dell’omicidio dell’ex compagna, strangolandola a mani nude. Con lei aveva una relazione da circa un mese. In primo grado era stato condannato a 30 anni dal gup di Rimini, per omicidio aggravato da motivi abbietti e futili. Poi la Corte d’appello di Bologna ha dimezzato la pena, riducendola a 16 anni, anche sulla base del fatto che una “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia possa attenuare la responsabilità di chi uccide. Questa decisione ha innescato polemiche ed è stata anche contestata da un presidio delle Associazioni della Rete delle Donne davanti all’ingresso della Corte d’appello di Bologna.

L’omicida, in carcere con la pena dimezzata in base alle attenuanti concesse per la sua travolgente gelosia, ha tentato il suicidio ingerendo un’ingente quantità di farmaci ed è ricoverato in gravi condizioni a Ferrara. A dramma si aggiunge dramma: la tempesta emotiva non ha fine e miete vittime a tutto spiano. Probabilmente questa persona si sarà sentita messa alla gogna, denudata in tutte le sue emozioni, in quelle sbagliate del prima ma forse anche in quelle giuste del poi, emarginato irrimediabilmente, trasformato prima in caso clinico e poi in caso da manuale di psichiatria criminale, disperato nel suo impossibile ravvedimento, “mostrizzato” da tutti.  Non condivido la banalizzazione della sentenza di secondo grado anche se posso nutrire dubbi sulla sua fondatezza. Una sentenza deve però giudicare un caso singolo e non deve comunque assumere una valenza generale (per questo esiste la legge): non devono rispuntare dalla finestra il delitto d’onore o quello passionale, ma nemmeno la condanna sommaria di un delitto pur tremendo e sconvolgente. Non mi piace mai il discorso del “punirne uno per educarne cento”.

Nel nostro paese anziché impegnarsi nel proprio compito e nella propria funzione si ha la tendenza di insegnare agli altri quanto dovrebbero fare. Questo non è civismo è solo confusione di ruoli e responsabilità. Il peggior modo per combattere i mali che ci affliggono e forse anche il peggior modo per stare dalla parte delle donne. Vale anche per i femminicidi la regola del “nessuno tocchi Caino”. Vale anche per i responsabili di omicidio di mogli, compagne e fidanzate quanto ha scritto coraggiosamente Agnese Moro richiamandosi al dettato costituzionale e all’insegnamento di suo padre: “Chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia”. Sono vicino alle donne, alle loro avanguardie difensive, alla rete delle loro associazioni, ai loro drammi umani e sociali, sono un femminista convintissimo (mi sento anch’io parte lesa di fronte alle violenze perpetrate contro le donne) , mi fa vomito ogni e qualsiasi maschilismo (diretto o indiretto, di azione o di opinione). Sono però d’accordo con Agnese Moro e. se ci riflettono sono convinto che lo saranno anche le donne pur alla sacrosanta ricerca di quell’approdo difensivo da ottenere non per gentile concessione ma con pieno diritto.