Silenzio, rientra l’umanità

Sul fine pena di Anna Maria Franzoni si è scatenato lo sciacallaggio mediatico, a cui ha dato involontario impulso l’interessata, affrettandosi a rivendicare la propria innocenza: a un sacrosanto diritto concesso a chi riceve e sconta una condanna ha fatto riscontro la ciarliera e superficiale riapertura del caso con la solita (molto calcistica e poco giudiziaria) contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti.  Così come avevo positivamente accolto la notizia della sua ammissione agli arresti domiciliari dopo un periodo di reinserimento sociale in una comunità, ho tirato un respiro di sollievo all’annuncio della definitiva riconquista della libertà da parte di Anna Maria Franzoni, condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio del figlioletto Samuele.

Avevo umanamente considerato un autentico capolavoro la sentenza di condanna, in quanto, operando sulle attenuanti, aveva saputo coniugare la colpevolezza con i residui dubbi di infermità mentale, ma soprattutto aveva iscritto quell’episodio in una sorta di limbo cerebrale in cui quella madre aveva potuto sopprimere con inaudita violenza il figlio, probabilmente senza nemmeno accorgersene, spinta all’epilogo di  un dramma psicologico o addirittura sull’onda di una insopprimibile crisi di nervi: una pena piuttosto breve, che forse ha consentito  alla Franzoni di rielaborare l’accaduto, di toglierlo dalla mente se mai c’era entrato e di archiviarlo dalla sua coscienza se mai in qualche modo vi si era depositato  e che le ha concesso un graduale ritorno alla normalità di vita.

Il percorso giudiziario e quello umano meriterebbero grande rispetto. Invece, ecco i soliti mestatori nel torbido, i quali riprendono a discutere di un caso sconvolgente, che chiede alla sua fine solo assoluto silenzio. In questa nostra società è vietato tacere per dare la possibilità di chiacchierare a vanvera. C’è il pietismo di maniera di chi prende le parti del piccolo Samuele: non ha bisogno della nostra pietà, ma del riguardo dovuto alla sua tremenda fine per cui è stata condannata sua madre. Un doppio dramma che ci dovrebbe consigliare di astenerci da ogni e qualsiasi ulteriore speculazione. C’è l’ostinazione di chi non riesce a concepire un gesto omicida di tale violenza a carico di una madre: la vita purtroppo non esclude niente ed è inutile volere chiudere gli occhi. C’è lo spirito vendicativo di chi pensa che la pena sia stata troppo breve e ne chiede quasi un supplemento mediatico. C’è chi non aspetta altro che infangare la giustizia, incapace di affrontare le situazioni. Nei salotti televisivi tutto è facile e serve a ciarlare del più e del meno.

Ricordo una frase detta da Anna Maria Franzoni al marito dopo la scoperta del cadavere del figlio: ne facciamo un altro…Parole che in tutti i casi esprimono follia, che in ogni ipotesi collocano l’accaduto al di fuori delle umane categorie. Dopo una decina d’anni possiamo rientrare nel consesso umano: non pensiamoci più. Sarei portato a fare una carezza di bentornata ad Anna Maria Franzoni, non perché la ritenga innocente sul piano giudiziario, ma perché era uscita obiettivamente, forse senza deliberato consenso, dall’umanità e finalmente vi rientra con riconquistata dignità. Basta e silenzio! Da lei e da tutti.