Le istituzioni trascinate in piazza

Mi è venuto spontaneo tentare un parallelismo tra la vicenda Lockheed e quella della nave Diciotti: confronto piuttosto arduo per i tempi molto distanti, per i reati ipotizzati assai diversi, per i riferimenti normativi cambiati nel frattempo, per le classi politiche quasi completamente mutate. Resta tuttavia un valido parametro di confronto: il discorso istituzionale.

Aldo Moro, in un memorabile intervento davanti al Parlamento riunito in seduta comune per discutere della messa in stato d’accusa di alcuni ministri davanti alla Corte Costituzionale, fece un’affermazione che viene spesso ricordata: non ci faremo processare nelle piazze. Ma espresse anche altri importantissimi concetti, riuscendo a trovare la sintesi fra la necessità di riconoscere il ruolo fondamentale della magistratura e l’orgogliosa e doverosa assunzione di responsabilità della classe politica rappresentata in Parlamento: «No, non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è di lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto. No, siamo in ballo anche noi; c’è un dovere di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona». Fin qui Moro e il suo altissimo senso politico ed istituzionale espresso in un momento delicatissimo della cosiddetta prima repubblica.

Matteo Salvini, dopo un tattico tira e molla, in una lettera al Corriere della Sera in ordine all’autorizzazione a procedere nei suoi confronti chiesta dal Tribunale dei ministri e riguardante il suo comportamento sulla nota vicenda Diciotti, scrive: «Dopo aver riflettuto a lungo su tutta la vicenda, ritengo che l’autorizzazione a procedere debba essere negata. E in questo non c’entra la mia persona. Innanzitutto il contrasto all’immigrazione clandestina corrisponde a un preminente interesse pubblico, posto a fondamento di precise disposizioni e riconosciuto dal diritto dell’Unione europea.  In secondo luogo, ma non per questo meno importante, ci sono precise considerazioni politiche. Il governo italiano, quindi non Matteo Salvini personalmente, ha agito al fine di verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i Paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti. (…) In conclusione, non rinnego nulla e non fuggo dalle mie responsabilità di ministro. Sono convinto di aver agito sempre nell’interesse superiore del Paese e nel pieno rispetto del mio mandato. Rifarei tutto. E non mollo».

Non credo che l’opzione del ministro dell’Interno sia orientata a ribadire il ruolo centrale del Parlamento nel giudicare l’operato ministeriale nei suoi limiti e nei suoi contenuti. C’è infatti un Parlamento (il Senato nel caso specifico): dovrebbe verificare che gli atti in questione siano di natura politica. Considerato che il confine tra l’azione personale e quella politica è molto labile e discutibile, che il giudizio parlamentare rischia di essere partitocratico e guidato da interessi di bottega elettorale, soprattutto che i senatori non mi sembrano in grado di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona (come auspicava Moro), è da ritenere comunque preferibile rimettere la questione al magistrato (un vero giudice come diceva Moro, non la piazza). Evidentemente Salvini preferisce farsi giudicare dalla piazza, che in questo momento gli è molto favorevole e chiede aiuto in tal senso al Senato. Mira inoltre a mettere in chiara difficoltà l’alleato di governo: siete legati a me, non potete scappare. Non si spiega diversamente la brusca inversione di marcia dalla difesa nel processo alla difesa dal processo.

Ho già scritto sulle conseguenze politiche che questa vicenda giudiziaria dovrebbe comunque avere; oggi, sulle ali nostalgiche del pensiero di Aldo Moro e dei giganti della nostra Repubblica democratica, mi soffermo a riflettere sulla totale mancanza di senso delle istituzioni, sul duro colpo che ad esse viene comunque inferto, e sull’attuale piccolezza politica degli uni e degli altri: la Lega vuole sottrarsi al giudizio del magistrato perché sente di avere il vento populista in poppa; il M5S preferirebbe (staremo a vedere se non si piegherà alla realpolitik per salvare il governo) passare la patata al giudice ordinario in nome di un giustizialismo demagogico e piazzaiolo ante-litteram, cavalcato a più non posso e che nulla ha da spartire con una seria considerazione delle funzioni e dei poteri della magistratura. La funzione del Parlamento, come già avvenuto di recente (legge di bilancio e manovra economica), è ridotta a registrazione delle convenienze politiche delle forze di governo: ecco perché sarebbe meglio, come detto sopra, rimettere il giudizio alla magistratura.

In questi giorni di confusa vita politica ed istituzionale mi viene oltremodo spontaneo tornare a personaggi che hanno fatto la storia italiana: i De Gasperi, i Moro, i Dossetti, i La Pira, i Togliatti, i Fanfani, i Berlinguer, etc. etc. Durante il dibattito parlamentare sulla fiducia al primo governo Berlusconi nell’ormai lontano 1994, un esponente di Forza Italia (non ricordo il nome) polemizzò con l’opposizione di allora, costituita da forze di centro-sinistra non ancora riunificate nel partito democratico: “Rimpiangiamo il partito comunista”, disse polemicamente. Rispose altrettanto polemicamente Massimo D’Alema: “E noi rimpiangiamo la Democrazia Cristiana”. Chiuso nel mio piccolo guscio democratico a prova di bomba pentaleghista, aggiungo: “E io rimpiango la democrazia cristiana e il partito comunista!”.