Il setaccio congressuale delle idee

Il congresso del Partito democratico sta faticosamente prendendo corpo e vita: sono usciti tre contendenti che si apprestano a confrontarsi e misurarsi alle primarie, laddove il bacino si allarga dagli iscritti agli elettori, laddove le proposte politiche si dovrebbero meglio precisare e i gruppi dirigenti dovrebbero uscire allo scoperto.

L’attuale debolezza di questo partito rischia di condizionarne il futuro riducendo il dibattito alla politica delle alleanze: dialogo con il M5S o chiusura ad esso? Come se un soggetto con scarsi mezzi economici, prima di pensare a guadagnare di più, si ponesse il problema di cercare un partner economico con cui mettersi in affari. Ripristino di una certa cinghia di trasmissione con la CGIL o rispetto comunque dell’autonomia del sindacato? Sarebbe come se un soggetto che si sente isolato cominciasse a promettere stretti legami ai parenti con cui non ha frequentazione facile e spontanea. Ricucitura con i fuorusciti di sinistra o presa d’atto di un recente travaglio che è stato una importante concausa dell’indebolimento? Sarebbe come se due coniugi, che vivono separati, chiedessero ai figli il parere su una eventuale riconciliazione.

Un altro grosso rischio è quello di rimettere i contenuti in un anacronistico setaccio destra-sinistra, partendo dalle ideologie e non dalla realtà, privilegiando gli schieramenti rispetto ai problemi. Il partito democratico deve sforzarsi di affrontare le problematiche moderne (difficoltà economiche, disagi sociali, disoccupazione, povertà emergenti, etc.) non in chiave velleitaria, ma in una logica riformista, che riesca ad imporre sacrifici in una credibile prospettiva di crescita equilibrata.

Non basta rincorrere spasmodicamente ed episodicamente le periferie: bisogna andare incontro con realistiche proposte alle loro esigenze. Volendo usare una metafora, che mi è ormai spontanea, occorre portare la politica dalla irrazionale “pancia” in cui è sprofondata (le paure) alla preoccupante tasca in cui fare i conti (le reali difficoltà economiche e sociali) ed al fine cervello con cui ragionare di gradualità riformista (la miscela tra le libertà individuali ed economiche e le esigenze di uguaglianza e giustizia sociale). Non si può aspettare che emergano le contraddizioni altrui per poi riprendere il controllo della situazione. Sarebbe come aspettare sulla riva del fiume il cadavere dell’avversario senza accorgersi di essere in pericolo di morte.

L’ultimo rischio da evitare è quello di avere paura dell’Europa e stare alla finestra in attesa che l’Ue riprenda vigore. Il partito democratico si deve “testardamente” presentare come europeista, senza timore di essere considerato visionario, inconcludente e fuori moda. Su questa linea europeista convinta vanno cercate alleanze interne ed internazionali: l’opzione europea viene prima di tutto e quindi non ha senso temere di compromettersi con movimenti e manifesti non perfettamente inclusi nell’anagrafe del partito.

Senza l’ansia di recuperare i consensi, senza la paura di chiarire (troppo) bene i contenuti, senza il timore di mettere in piazza le soluzioni dei problemi, senza il pudore di confrontarsi apertamente tra dirigenti vecchi e nuovi, senza la vigliaccheria di coprire gli errori commessi, senza cedere alla tentazione di cominciare tutto daccapo, senza vergognarsi di essere (troppo) democratici. Chi ci sta ci sta!