I programmi scritti all’osteria

“Sembra facile fare un buon caffè…”, così recitava uno spot pubblicitario di parecchio tempo fa. “Sembra facile governare”, così aggiungo io, istruito al riguardo da mio padre. Egli amava paragonare i faciloni, che promettevano di mettere a posto il Paese con troppa immediatezza e disinvoltura, a coloro che nei ritrovi pubblici si spacciano per miracolosi capaci di tutto: “I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

Gli attuali governanti esibiscono i loro gessetti e, sul tavolo di palazzo Chigi o sulle scrivanie ministeriali, tracciano regole, che si rivelano inapplicabili ancor prima che ingiuste e inadeguate. Ma non finisce solo così. I gessetti hanno colori diversi e alla fine il quadro governativo diventa un autentico ginepraio in cui non si capisce più nulla.

Per l’accoglienza degli immigrati v’è chi propaganda la irreversibile chiusura dei porti, spacciando il nervoso ed esilarante “cattivismo”, dietro cui peraltro si cela un vomitevole ritorno di razzismo, per radicale soluzione dei mali; nello stesso governo v’è chi propende per un relativo e strumentale buonismo da sbattere polemicamente in faccia all’Unione europea, rea di menefreghismo inguaribile. Sul discorso sicurezza, davanti ad una notevole levata di scudi dei sindaci, che mettono in discussione la negazione della residenza anagrafica agli immigrati senza permesso di soggiorno, v’è chi mette tutto sul piano del pedissequo rispetto della legge e rispedisce al mittente le perplessità dei pur autorevoli primi cittadini; nello stesso governo però v’è chi accetterebbe di sedersi attorno ad un tavolo per discutere l’applicazione del decreto sicurezza in modo da evitare la violazione dei principi costituzionali e dei diritti intoccabili della persona umana. Due anime politiche in un corpo solo governativo? Si poteva immaginare, ma la realtà sta andando ben oltre l’immaginazione, dimostrando che, se è problematica sempre e comunque l’applicazione dei contratti, figuriamoci quella dei “contratti di governo” (il tavolo su cui è stato frettolosamente scritto il programma con il pezzo di gesso di cui sopra). A intrigare ulteriormente la questione immigrati è sorto il problema delle accuse rivolte dal Tribunale dei ministri a Salvini e per le quali il Senato deve esprimersi dando o meno l’autorizzazione a procedere contro il ministro degli Interni: il presidente del Consiglio si assume la responsabilità politica del caso, ma i grillini sono incerti se lasciare campo alla magistratura o stopparla.

Le cose si complicano ulteriormente se da palazzo Chigi e dai palazzi ministeriali andiamo in Parlamento: si stanno aprendo evidenti crepe nella maggioranza. Ci sono parlamentari che non hanno votato certi provvedimenti e che sono stati espulsi dal M5S: pochi, ma significativi di un malessere esistente e di una prassi disciplinare inaccettabile e inconcludente. Anche chi ha votato le misure del decreto sicurezza comincia ad avere seri ripensamenti sull’onda delle aspre critiche dei sindaci di parecchi e importanti comuni, sull’onda dei rilievi e delle raccomandazioni fatti dal Presidente della Repubblica contestualmente alla firma di promulgazione, sull’onda di un mondo cattolico piuttosto perplesso ed inquieto in materia di immigrazione, sull’onda di un certo fermento elettorale presente nelle file dei grillini restii a nascondersi dietro il decisionismo leghista (vedi recenti risultati elettorali in Abruzzo).

La politica è complessa, ma questa volta mi sembra proprio un autentico casino. Finita (?) la grana della manovra economica con “quel pasticciaccio brutto di governo e parlamento”, spunta la questione dei permessi di soggiorno e delle residenze anagrafiche per gli immigrati, mentre sullo sfondo si stagliano le sagome delle navi zeppe di richiedenti asilo. Ma il gran busillis è rappresentato dalla Tav. Mi sono tolto lo sfizio di andare a vedere come andarono le cose circa centottant’anni fa per la costruzione della prima ferrovia in territorio italiano: la Napoli- Portici. Se avessero dovuto fare tutti i calcoli e vagliare tutti i pro e i contro come si sta facendo per la Tav, in Italia saremmo ancora senza rete ferroviaria. Cosa voglio dire? Prescindo dall’attendibilità e scientificità del lavoro svolto dalla commissione ministeriale, su cui peraltro si sono scatenati dubbi e polemiche. La mia riflessione è molto terra terra: mentre i costi sono relativamente certi e prevedibili, i benefici sono imprevedibili nel tempo e nella loro quantità, ma non per questo trascurabili nella loro portata storica. Se è vero che il bilancio consuntivo di un’azienda è la “sommatoria di opinioni”, figuriamoci un bilancio preventivo di una impresa quale la Tav, linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione, una struttura che dovrebbe agevolare trasporti e collegamenti con vantaggi spalmabili sull’intera realtà socio economica nazionale ed europea. Se poi ci si imbarca nel “benaltrismo” strutturale, valutando se sia meglio ammodernare la rete esistente nelle tratte più difficile e disastrate, non se ne esce più e si rimane imprigionati nel paradosso dell’uovo e della gallina: sarà meglio che nascano prima le ferrovie interne, quelle dei pendolari, o le ferrovie a lungo percorso transnazionale?

Cosa ne capiranno i cittadini?  Io non ci sto capendo niente, sto solo sentendo le sciocche grida di Tizio e Caio. Forse bisogna diventare aristocratici per combattere il populismo: non resta altro da fare che tappare le orecchie, come fece l’astuto Ulisse, agli elettori più ingenui e scombussolati, e fare stringere dal presidente della Repubblica i lacci intorno agli elettori più smagati in modo da evitare loro rischiosi scivolamenti. Ulisse era furbo e ci direbbe ancor oggi: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Trovare chi ci possa propinare, in questo momento storico, virtute e conoscenza è un problema difficile. Sicuramente non gli attuali governanti. Probabilmente bisogna avere il coraggio di scendere e scavare nel profondo delle proprie coscienze.