La politica vive anche di ricordi

In questi giorni di gennaio 2019 ricorrono due anniversari: cento anni dall’appello  di don Luigi Sturzo e dei dirigenti del neonato partito popolare “a tutti gli uomini liberi e forti”, con il conseguente programma “sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai principi cristiani” del nuovo partito, una formazione politica cristiana appunto nell’ispirazione, ma laica nell’impostazione e nei comportamenti; il centenario della nascita di Giulio Andreotti uomo politico importantissimo del secolo scorso, democristianissimo uomo più di governo che di pensiero, che interpretò, lui laico, in modo molto blando rispetto a Sturzo sacerdote, la laicità della democrazia cristiana, il partito erede dei popolarismo sturziano.

Metto in collegamento questi due eventi celebrativi proprio per sottolineare come soprattutto nella storia italiana, ma non solo in essa, la gerarchia cattolica abbia cercato e avuto un ruolo invadente e compromissorio col potere politico al fine di ottenere vantaggi e privilegi e per garantirsi illusori spazi di presenza religiosa. Quando il Vaticano intravide la possibilità di stipulare con relativa facilità e immediatezza patti col partito e col regime fascisti, non esitò a scaricare don Luigi Sturzo, provocandone le dimissioni e l’esilio, anche se per la verità questo prete, che intendeva separare nettamente la vita religiosa da quella politica, era sempre stato piuttosto indigesto se non inviso agli esponenti di vertice ed a parecchi personaggi di base del cattolicesimo italiano.

Il Vaticano ed il cattolicesimo più integralisti e conservatori ebbero, dal secondo dopoguerra e per quasi tutto il novecento, l’interlocutore politico privilegiato in Giulio Andreotti: egli, così com’era spregiudicato e disinvolto nei metodi, era particolarmente e rigorosamente attento e legato alle volontà clericali. Mentre De Gasperi frequentava le chiese per pregare, Andreotti preferiva le sagrestie per confabulare coi preti. Così dice un noto aforisma di non so chi. A chi gli chiedeva ironicamente il perché di tanto feeling tra lui e gli ambienti clericali rispondeva, con altrettanta arguzia, che probabilmente la ragione stava nel fatto che i preti lo conoscevano meglio dei giornalisti e dei politologi.

Al di là delle battute e dei giudizi sommari su Giulio Andreotti, resta questo vizio antievangelico di intromissione religiosa nelle cose della politica. La Democrazia Cristiana seppe resistere abbastanza bene alla tentazione di cedere alle pressioni vaticane: l’ultimo sofferto cedimento fu quello del referendum abrogativo dell’istituto del divorzio, anche perché, in quello come in parecchi altri casi, la furbizia clericale consisteva nel far esporre i democristiani per poi ripiegare frettolosamente quando le cose si mettevano male.

La presenza dei cattolici nella politica ha offerto all’Italia un serbatoio fondamentale di classe dirigente: l’ultimo dei giusti di questa salutare osmosi è probabilmente Sergio Mattarella, e si vede. Conclusa in modo negativo la parabola democristiana, periodicamente nasce la nostalgica domanda se esista ancora in Italia un ruolo per un partito cristiano. Se si intende ripetere pedissequamente l’esperienza della Democrazia Cristiana credo non si vada da nessuna parte. Se invece, come sostiene acutamente Alberto Guasco nel numero di gennaio del mensile Jesus, si volesse riscoprire il patrimonio ideale e politico di Sturzo, Dossetti, La Pira, Moro, Fanfani, la lezione di Montini e la capacità di coniugare libertà personale e giustizia sociale, potrebbero aprirsi interessanti praterie di approfondimento culturale, di formazione di classe dirigente, di riscoperta etica.

Nel maggio scorso il presidente della Conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti ha lanciato un rinnovato appello ai “liberi e fori”, alla “responsabilità di uomini e donne che nell’arena pubblica “sappiano usare un linguaggio di verità”. Parole sante e opportune nell’attuale e penoso clima politico italiano. Attenzione però a non vivere di ricordi. Lo dico io, che nei miei libri ho ripetutamente apposto un sottotitolo: “si vive anche di ricordi”. Forse, non voglio essere presuntuoso, sviscerando quell’”anche”, potrebbe nascere o rinascere qualcosa di buono.