La legge del cosa vogliamo essere

“Mi ricordo che tanti anni fa, mentre discutevamo della legge sul divorzio, allora sottoposta a referendum, mio padre Aldo – da buon giurista – ebbe modo di spiegarmi che una legge non contiene solo delle norme, ma definisce anche che cosa vogliamo essere come Paese, come società e come persone”. Da questo mirabile insegnamento parte Agnese Moro, l’indomani della cattura di Cesare Battisti, scatenante demagogici, inutili, e vendicativi atteggiamenti, per affrontare, coraggiosamente, coerentemente e credibilmente, il problema dell’impostazione del nostro sistema penale e dei principi che debbono reggerlo.

Proprio mentre gran parte della classe politica e dell’opinione pubblica si esercitano nel fegatoso gioco al massacro dei rei, la figlia della vittima più emblematica e significativa del terrorismo, si schiera a favore della tesi Costituzionale, in base alla quale chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia.

Siamo in presenza di una commovente lezione di vita: Aldo Moro aveva seminato molto bene, nella sua famiglia, tra i suoi allievi, nella politica, nella società. Non dimentichiamo i suoi insegnamenti: è vissuto ed è morto per essi. Proprio lui, che teorizzava la testarda ricerca del riscatto del condannato, è stato violentemente sequestrato, ingiustamente processato, follemente condannato a morte, barbaramente ucciso. Non so cosa proverà Cesare Battisti leggendo la testimonianza di Agnese Moro. Non credo che potrà rimanere indifferente o scettico. Sarà costretto a riflettere e a ripensare. Glielo auguro.

Tutti però dovremmo riflettere e ripensare, abbandonando lo scudo fatto dell’amarezza e della rabbia delle vittime, con il quale, come sostiene Agnese Moro, faremmo prevalere la linea vendicativa, che porta fuori dalla nostra Costituzione e moltiplicheremmo anche la forza di quella catena del male, che parte da ogni gesto di violenza, privato o pubblico che sia, e che si allarga e si rinforza continuamente.

Agnese Moro ha giustamente applicato l’insegnamento paterno al discorso del sistema giudiziario penale, paradossalmente sollecitata dall’angoscioso evento dell’arresto e della consegna al carcere “fine pena mai” di un sedicente terrorista, condannato per crimini peraltro assai poco politici e molto comunemente delinquenziali.    A me viene spontaneo allargare il discorso alla “criminalità pubblica” che si sta scatenando sugli immigrati. Anche qui esistono due visioni e chiedo scusa ad Agnese Moro se rischierò di parafrasare il suo discorso.

Una prima visione sostiene che si debba aiutare solo i più disperati fra i disperati, respingendo o rimpatriando gli altri; che si debba scoraggiare e bloccare le partenze per diminuire le morti in mare; che si debba fare guerra ai trafficanti comprendendo fra di essi tutti e comunque coloro che danno una mano a queste masse di disgraziati; che si debbano chiudere i porti e alzare i muri in attesa di regolamentare la spartizione dell’accoglienza; che si debba combattere senza pietà la clandestinità in quanto causa assoluta di criminalità. Queste sono regole, che stante quanto sosteneva Moro, definiscono prima di tutto cosa vogliamo essere: un Paese chiuso, una società razzista, persone egoiste.

La seconda visione non nasconde le enormi difficoltà, non sostiene di accogliere tutti “buonisticamente” e scriteriatamente, ma si ricollega ai principi costituzionali della protezione delle persone nei loro diritti fondamentali e nella loro dignità, quali esseri umani senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Dopo avere chiarito se vogliamo essere un Paese civile e aperto, una società che non discrimina, persone solidali, possiamo scrivere le regole. Altrimenti le regole non si possono accettare: la legge viene dopo la giustizia, dopo il rispetto dei diritti umani e la solidarietà verso i propri simili. Come dice Massimo Cacciari, scadiamo nella legge di Creonte, che impedisce di seppellire i morti, di soccorrere il naufrago in mare, etc.  Buttiamo tremendamente a mare, assieme ai migranti, i principi di giustizia della cultura europea.