La riforma del perdono

A Napoli, quartiere Pignasecca, il salumiere Antonio Ferrara dopo una giornata di lavoro sta abbassando la saracinesca per far ritorno a casa. Avviene tutto all’improvviso: un uomo gli punta la pistola al volto, vuole i soldi, è una rapina. Antonio, cardiopatico, dallo spavento si accascia a terra e muore. Aveva 64 anni, era conosciuto e benvoluto da tutti. Nel quartiere al dolore si unisce la rabbia con il solito contorno di richieste di riforme: più sicurezza, più telecamere, più vigili urbani, più lavoro.

Il giovane parroco celebra i funerali e durante l’omelia rivela un fatto: il figlio del rapinatore, un ragazzo che fa un cammino di fede, scioccato e addolorato per quanto accaduto, ha chiesto di incontrare Pietro il figlio della vittima, per chiedergli perdono. Pietro ha accolto la richiesta e in sagrestia, al riparo da qualsiasi inopportuna intrusione, i due giovani, piangendo, si sono abbracciati.

Un fatto che merita molta attenzione sul piano religioso, ma anche qualche riflessione laica. Il discorso legato alla fede lo lascio alla coscienza delle persone e delle comunità cristiane. In questo caso però bisogna ammettere che la fede ha molto da dire alla società. Qualcuno si pone la questione se valga la pena esporre il crocifisso nei locali pubblici e, in periodo natalizio, se sia opportuno allestire il presepe nelle aule scolastiche. Il problema lo hanno radicalmente risolto i due giovani con la loro testimonianza, che ci grida in faccia di smetterla di strumentalizzare il dolore per creare un clima di paura e di sfiducia.

Non si può pretendere che tutti i cittadini abbiano lo stesso coraggio dimostrato da questi giovani, ma che tutti capiscano come non bastino un decreto, un divieto, un’arma per difendersi dalla delinquenza e dal male che alberga nella nostra società. Se non vogliamo recuperare il senso religioso, riprendiamo almeno quello civico, fatto di reciproco rispetto fra cittadini e istituzioni, ripuliamo la nostra coscienza democratica, guardiamo anche oltre le leggi per puntare ad una coesistenza fatta di giustizia, solidarietà e pace.

“La politica è la forma più alta di carità” hanno detto autorevolissimi esponenti religiosi. Mi permetto di aggiungere che la carità, pur in versione laica, è il presupposto fondamentale della politica. Conversando con un caro amico impegnato in politica, a proposito del problema dell’accoglienza agli immigrati, mi sono sentito dire che “lo Stato italiano non è la Caritas”. Giustissimo! Però tutti i componenti dello Stato, a qualsiasi livello e a seconda delle proprie responsabilità, devono tenere in debito conto quanto dice san Paolo a proposito: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.

Alla luce di questo mastodontico valore proviamo ad esaminare il comportamento dei politici e dei cittadini di fronte alla politica. Un disastro! L’esatto contrario rispetto all’invito paolino. Se è vero che il perdono, come dice la stessa etimologia della parola (donare completamente), è un dono, pur non essendo un integralista cattolico, sono convinto come, per dirla con le appropriate parole pronunciate dal parroco di San Liborio alla Carità durante le esequie della vittima della drammatica rapina di cui sopra, perdonare sia l’unica possibilità che abbiamo per far morire il male, per non permettergli di continuare a farci e fare male.

Alcuni sostengono che ci sia il rischio di cadere nel perdonismo, vale a dire in una sorta di deriva deresponsabilizzante in cui tutto alla fine viene permesso, o nel sociologismo in cui tutto viene giustificato dalle contraddizioni della società. Rispondo con una frase dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la pace nel 1984, un uomo sempre in prima linea nella lotta all’apartheid in Sudafrica: “Senza perdono non ci può essere futuro per un rapporto tra individui, all’interno di una nazione o tra le nazioni”.