Padre, figlio e poco spirito santo

Quando per squalificare l’avversario politico si va a rovistare nella sua vita privata, vuol dire che lo scontro si è portato su un terreno inadatto e inaccettabile. Un tempo erano i figli che squalificavano i padri. Storico ed emblematico il caso, risalente agli anni cinquanta del secolo scorso, di Attilio Piccioni, ministro ed esponente di primissimo piano della Democrazia Cristiana, stroncato nella sua carriera politica per il coinvolgimento del figlio Piero (alla fine assolto) nella famosissima vicenda giudiziaria relativa alla morte di Wilma Montesi. Altrettanto memorabile il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, letteralmente martirizzato per i comportamenti disinvolti dei suoi figli. Anche il più volte ministro e capo di una corrente democristiana Carlo Donat Cattin dovette sobbarcarsi le ripercussioni dei comportamenti del figlio Marco, militante dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea.

Non è quindi soltanto un vezzo della moderna società mediatica gettare sui politici manciate di fango a vanvera, è sempre stato un pessimo vizio della lotta politica. Ultimamente sono i figli a scontare le ipotetiche trasgressioni dei padri. Il ministro Maria Elena Boschi fu colpevolizzata per il comportamento del padre vice-presidente di una banca. Matteo Renzi fu tirato in ballo per le accuse rivolte a suo padre in merito ad affari di carattere economico-imprenditoriale. Oggi tocca a Luigi Di Maio rispondere per il padre, imprenditore edile che avrebbe pagato in nero un suo operaio. Qualcuno dirà che sto mescolando capre e cavoli ed in effetti ogni caso evocato ha una sua specificità ed una sua rilevanza, ma sono tutti omogenei nell’intenzione di voler impicciare i figli impegnati in politica con i comportamenti dei padri in altre faccende affaccendati.

Anche prescindendo dall’esito giudiziario delle inchieste, molto spesso chiuse con un nulla di fatto, quella di cui sopra resta comunque una “prassi vergognosa”, che oltre tutto si arricchisce di discriminazioni, in quanto per certi esponenti politici è (quasi) giusto ricorrere a questi mezzucci, mentre su altri non si può sparare. La faziosità arriva fino a questo punto: qualcuno rischia di essere martirizzato per le colpe del padre, mentre magari qualcun altro viene quasi santificato per essere così bravo nonostante la cattiveria paterna. Sto volutamente esagerando per rendere l’idea.

Sarebbe ora di finirla con questi atteggiamenti. Non si tratta tanto di distinguere tra pubblico e privato: discorso delicato che la Costituzione italiana risolve all’articolo 54, prevedendo che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Non si può finire col fare i bacchettoni, come succede negli Usa ed in altri Stati, ma occorre pretendere un comportamento globalmente credibile da coloro che rivestono cariche pubbliche.

Altro discorso è mescolare i rapporti privati con la politica al fine di far ricadere le eventuali colpe dei padri sui figli e viceversa. Al di là della squallida gara mediatica a simili scoop, i politici devono smetterla di scontrarsi a questo infimo livello e la gente deve sforzarsi di discernere la sacrosanta critica politica dalla calunniosa insinuazione. In poche parole a me non interessa e non deve interessare quel che ha combinato e combina il padre di Luigi Di Maio, ma quel che combina Luigi Di Maio come ministro della Repubblica. Ce ne sarebbe più che a sufficienza per mandarlo a casa senza ricorrere alle “marachelle” paterne. Tuttavia il grillismo, che si vuole distinguere per il “bigottistico” ardore della pulizia etica, sconta anche i propri errori: quando i suoi esponenti ricevono una comunicazione giudiziaria, quando scoppiano le risse per i reati di opinione all’interno del movimento stesso, quando emergono fedine penali non immacolate per i loro candidati, quando si dubita che abbiano regolarmente pagato i contributi per le colf, quando i loro papà non hanno il pedigree in ordine, etc., è automatica la riflessione “facevano tanto i puri…si guardassero in casa loro”.

C’era uno spot pubblicitario per la marca di un detersivo, che diceva: “Credevo che la mia camicia fosse bianca finché non ho visto la tua lavata con …”. A rovescio si potrebbe dire: “Credevo che certi politici fossero puliti finché non ho rovistato nella loro vita privata”. Non mi piace per niente! È normale che chi la fa l’aspetti, ma sarebbe auspicabile che nessuno avesse travi nei propri occhi e soprattutto che nessuno giocasse a cercare la pagliuzza altrui.